di Nicoletta Polla-Mattiot
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Ci sono decisioni potenti per la loro semplicità. Se l'arte di Giorgio Armani è sempre stata la sottrazione, l'eleganza come risultato del togliere per arrivare all'essenza, la sfilata di domenica 27 febbraio è l'espressione pura di una genialità creativa e umana che va ben oltre la moda.
In una Milano Fashion Week che ha viaggiato in bilico fra l'entusiasmo genuino della ripresa e l'ombra opprimente di una guerra vicina, l'opzione del silenzio è un'azione. Non un gesto passivo e neppure una rinuncia, se mai il paradosso rivoluzionario di una scelta di campo tutt'altro che ovvia. Inutile ribadire il peso dei buyer e del mercato russo.
“Per rispetto alla sofferenza delle persone”, annuncia una voce fuori campo e dopo un breve applauso, la collezione sfila senza musica, in un'atmosfera sospesa – spezzata solo dal ticchettio delle macchine fotografiche, accordata solo “al battito del mio cuore” (come commenterà, dietro le quinte, lo stilista). Dallo straniamento iniziale l'attenzione si concentra sul passo proporzionato delle modelle, le uscite che seguono un ritmo interno. Gli abiti, il lavoro di centinaia di ore e centinaia di mani, diventa centrale, protagonista senza distrazioni e senza divagazioni: schietta emozione del fare, generoso omaggio a ciò che conta.
Un'opera d'arte è un'arma, diceva Claudio Parmiggiani. Non è mai un gesto rassicurante, salottiero, decorativo, è un atto sovversivo. “In questo sta la sua verità, nel silenzio che parla”.
Giorgio Armani ha scelto e usato un'arma pacifica e potente, la stessa che da John Cage a Marina Abramovic, da Quintiliano a Hemingway, ha attraversato secoli di arte e letteratura, comunicazione e storia, restituendo alla moda il suo potere eversivo: essere quello che è, messaggio di pura esistenza. In questo sta il suo capolavoro.
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