di Ugo Tramballi
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«Non importa quanto tempo sarà necessario» per raggiungere «l’assoluta vittoria», aveva detto al Congresso Franklin Roosevelt l’8 dicembre 1940, alzandosi orgogliosamente dalla sua sedia a rotelle. Pearl Harbour non è paragonabile alle minacce di Kim Jong Un; né lo è il presidente del New Deal e della Vittoria sulle dittature, con quello dei tweet di oggi. Ma le dichiarazioni di Donald Trump alle provocazioni nordcoreane sono comunque una prova d’irrilevanza, non di forza.
Al “fuoco e fiamme” sulla Corea del Nord garantito dal presidente, ha reagito perfino un repubblicano falco ma con una coscienza internazionalista come John McCain: un presidente degli Stati Uniti, è stato il senso della sua critica, non può avere la stessa sfrontatezza di un dittatore. Le parole e soprattutto le minacce, vanno dosate per essere credibili. Tuttavia, l’altra cosa più importante insieme alla presunta miniaturizzazione delle bombe atomiche coreane, alla promessa di Pyongyang di colpire Guam (il territorio americano più vicino) e al bullismo di Trump, è il silenzio cinese.
Pochi giorni prima al Consiglio di sicurezza Onu, Pechino aveva inusualmente votato insieme a Mosca, le sanzioni proposte dagli Stati Uniti. E al vertice Asean a Manila, il ministro egli Esteri cinese Wang Yi aveva mostrato di essere collaborativo. Le ragioni della sua buona disposizione, però, dipendevano dalla tolleranza dimostrata dai ministri asiatici verso le ambizioni cinesi nei mari meridionali di quella regione. A Pechino la questione nordcoreana interessa molto meno del controllo sul Mar Cinese meridionale: la prima è un’emergenza tattica, la seconda un’ambizione strategica.
Da 63 anni la politica estera cinese è fondata sui “Cinque principi della coesistenza pacifica”: mutuo rispetto dell’integrità territoriale; non aggressione; non interferenza negli affari interni; cooperazione e coesistenza pacifica. Ma nell’applicazione di queste tavole della legge internazionale, i cinesi hanno sempre dato una loro versione: per saperne di più chiedere agli indiani che dopo essere stati vittime di un’aggressione nel 1962, continuano ad avere dispute territoriali e ora subiscono l’espansionismo cinese attraverso Obor, strumento della sua penetrazione politica nel Subcontinente, condotta con mezzi economici.
Anche la decisione di Xi Jinping di presentarsi in divisa mimetica, il mese scorso alla gigantesca parata militare nel vuoto del deserto mongolo, è stata a suo modo un’interpretazione dei cinque principi. «La più grande parata del mondo della più grande forza armata del mondo» è servita per riaffermare il controllo del partito sull’Esercito Popolare di Liberazione. Ma anche per mostrare grandi aspettative: per ora solo in Asia, poi si vedrà. Per decreto del Comitato centrale è stato stabilito che la Cina si proclamerà “superpotenza” solo il primo ottobre 2049, il centesimo anniversario della Repubblica Popolare.
È evidente che le intemperanze del giovane Kim Jong Un rischino di compromettere i programmi cinesi e il lungo respiro temporale che si sono
dati per realizzare la loro egemonia asiatica. Contemporaneamente, tuttavia, le sue continue provocazioni agli Stati Uniti mettono a nudo l’incompetenza di Donald Trump. C’è sempre un livello di pericolo quando un presidente debole viene sfidato nel suo amor proprio nazionale. Ma i cinesi confidano che il sistema americano, cioè il suo “stato profondo” politico-militare, impedisca al presidente irresponsabili fughe in avanti. Nessun tweet ha mai prodotto politiche conseguenti. Il gioco è rischioso. Ma il risultato di minare giorno dopo giorno la credibilità americana in Asia, vale l’ambiguo silenzio cinese.
Ugo Tramballi
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