di Sergio Fabbrini
(BLOOMBERG NEWS)
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La politica può essere analizzata da due prospettive alternative. La si può guardare dalla prospettiva dei singoli partiti. Oppure, la si può analizzare dalla prospettiva del sistema politico. La mia prospettiva è la seconda. Mi domando: come, nei sistemi politici nazionali, si risponde alle esigenze di produrre beni collettivi (crescita, inclusione, sicurezza)? Considerando l’esperienza di due Paesi a noi comparabili (Francia e Germania), la risposta è la seguente: attraverso la formazione di un centro politico favorevole al progetto di integrazione.
Cominciamo dalla Francia. La vittoria di Emmanuel Macron nelle recenti elezioni presidenziali è stata resa possibile dall’attivazione di un centro politico a favore della “Francia europea”. Si è trattato di un centro ristretto in quanto, in quel Paese, le posizioni antieuropeiste si sono dimostrate forti sia sulla destra che sulla sinistra (al primo turno, Marine Le Pen ha ottenuto il 23,15 per cento e Jean-Luc Mélenchon il 21,95 per cento dei voti).
Di fronte ad una sfida sostenuta da quasi la metà dell’elettorato, l'area politica europeista è dovuta andare oltre le vecchie divisioni tra centrodestra e centrosinistra per aggregarsi nel movimento centrista di Emmanuel Macron. La sua La République En Marche (LREM) non è un partito ma una coalizione di gruppi sociali, interessi economici, notabilati politici locali, pezzi di partiti tradizionali. In Francia, la divisione politica preminente non è tra destra e sinistra, ma riguarda il rapporto con l’Unione europea (Ue). I programmi di Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon sono l’espressione di due poli ideologicamente opposti, eppure entrambi vogliono soddisfare esigenze sociali domestiche indipendentemente dalla logica dell’interdipendenza europea. Dicono, «prima i francesi», ma cosa succederebbe se ogni Paese dicesse «prima i miei cittadini»? Il risultato sarebbe lo scioglimento del mercato unico (che funziona fino a quando ci sono regole sovranazionali accettate da tutti i Paesi che ne fanno parte), oltre che la fine dell’unione monetaria (che richiede una comune corresponsabilità tra i vari Paesi dell’Eurozona per garantirne stabilità). Anche il centro europeista ha risposto ad esigenze di elettori nazionali, tuttavia ne ha collocato la soddisfazione nel contesto dell’interdipendenza europea. Una data politica (quella sulle pensioni, ad esempio) non è giusta o sbagliata in sé, ma lo è in relazione alla sua fattibilità nel contesto di quell’interdipendenza. Qui, non si tratta di uscire da un regime di policy europeo per realizzare un’esigenza nazionale, ma di riformare quel regime di policy europea per renderlo compatibile con l’insieme delle esigenze nazionali.
Passiamo alla Germania. In questo Paese, poiché la popolazione che disconosce l’unitarietà del progetto di integrazione è una minoranza, il centro europeista è più largo, consentendo di conseguenza una maggiore differenziazione programmatica al suo interno. Secondo un recente sondaggio di Politico, la destra sovranista di Alternative für Deutschland (Afd) rappresenta poco più del 10 per cento e la sinistra sovranista di Die Linke poco meno del 4 per cento dell’elettorato. Se così sarà alle prossime elezioni (2025), la Germania potrà ritornare ad una competizione, all’interno del centro europeista, tra coalizioni di centrodestra e di centrosinistra, con programmi che faranno i conti con gli effetti della pandemia e del revanscismo russo. Ciò sarà possibile perché, in Germania, il centro europeista è largo, non già ristretto come in Francia. Da Freie Demokraten (Christian Lindner) a Die Grünen (Annalena Baerbock), tutti i partiti sono consapevoli dell’importanza, per il loro Paese, della coerenza del mercato unico, della stabilità della moneta comune, della necessità dell’alleanza atlantica.
Se consideriamo il contesto italiano, esso appare più simile a quello francese che tedesco. Poiché una parte considerevole dell’elettorato italiano nutre sentimenti antieuropei (il sovranismo della destra e della sinistra, più quello del mondo Cinque Stelle, ha un consenso equivalente o superiore a quello francese), è probabile che la difesa dell’”Italia europea” conduca alla formazione di un centro costituito da una coalizione di partiti (o pezzi di essi) di centrosinistra e centrodestra, in rappresentanza di interessi economici e sociali che non potrebbero crescere al di fuori del mercato unico e in assenza della stabilità monetaria. Tuttavia, un Paese spaccato a metà, tra europeisti e sovranisti, non è una buona notizia. La vittoria sovranista verrebbe vista come un salto nel buio (salto che stavamo per fare dopo le elezioni del 2018), non diversamente da come veniva vista un’eventuale vittoria comunista nel passato. Soprattutto, quella divisione congelerebbe la competizione politica di cui l’Italia avrebbe bisogno per far girare aria fresca nel governo e nella società. Tale competizione sarà possibile solamente se i sovranisti rielaboreranno la loro strategia, accettando l’unitarietà del progetto di integrazione, così preservando il mercato unico e l’unione monetaria (oltre che la supremazia del diritto europeo, seppure in campi specifici). Su questa base, molto può essere rivisto, a cominciare dalle competenze da assegnare agli stati membri e a Bruxelles.
Insomma, se si guarda al sistema politico, la sua capacità di produrre beni collettivi dipende dalle caratteristiche del centro che sostiene o accetta l’Ue. Più largo è quel centro, più aperta sarà la competizione al suo interno. Pur essendo vicina a Parigi, sarebbe auspicabile che la politica italiana andasse in direzione di Berlino.
Sergio Fabbrini
editorialista
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