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Parigi oscilla tra nero o colorato, vero sartoriale e avanguardia

di Angelo Flaccavento

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Dior. Trionfo di delicate crinoline e toni delicati

Dior. Trionfo di delicate crinoline e toni delicati

C’è voglia di leggerezza, ma anche di costruzioni solide, e non è difficile intuire perché, se si considera la temperie di continui scombussolamenti

30 settembre 2022
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3' di lettura

Forze opposte governano la moda vista a Parigi nelle prime giornate della fashion week: rigore e frivolezza, precisione e frou frou, sottrazione ed eccesso. C’è voglia di leggerezza, ma anche di costruzioni solide, e non è difficile intuire perché, se si considera la temperie di continui scombussolamenti. Dries Van Noten ha il dono della sintesi, e di una elegante morbidezza di tratto. Splendido colorista, capace di accostamenti inusitati, apre a sorpresa in nero, e in nero continua per oltre metà della sfilata. È un movimento dal buio alla luce, dal rigore scultoreo al flou spumeggiante, punteggiato da gioielli di vetro, materia fragilissima dall’apparenza coriacea, e per questo fortemente metaforica. Il messaggio di gioia, di luce dopo le tenebre, arriva forte e chiaro.

Da Saint Laurent, lunghissimi cappotti spalluti avvolgono e proteggono abiti ancor più lunghi, liquidi come metallo fuso, che si inerpicano fino al capo in morbidi cappucci. Di solito sfrontata, la donna immaginata dal direttore creativo Anthony Vaccarello da un paio di stagioni seduce senza scoprirsi, appare insieme eterea e carnale. Nella collezione riecheggiano note molto francesi – Madame Grès, Azzedine Alaïa che cita Madame Grès, Claude Montana, oltre naturalmente a Yves Saint-Laurent – compresse in una silhouette sottile e flessuosa, cui gli echi totalitari danno un frisson sinistro. Gioca con i contrasti Daniel Roseberry da Schiaparelli: se il giorno è rigoroso e sartoriale, la sera è barocca e scintillante, con tanto di impressioni di nudo alla maniera di Yves Klein, ma dorate. Il progetto del marchio appare sicuro, il prodotto concreto e desiderabile oltre le esuberanze della couture.

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Da Chloè la connessione con il mondo naturale è, almeno in termini estetici, messa completamente da parte a favore di un romanticismo grafico fatto di balze di pelle, occhielli di metallo, aperture sui fianchi alla maniera di Azzedine Alaïa. La svolta secca non convince, perché indurisce l’identità, un tempo accogliente e soft. Le gemelle Olsen hanno creato con The Row un mondo tutto loro, di lussuosa rinuncia al superfluo. Le influenze sono chiare: Zoran, Jil Sander, il primo Yohji Yamamoto. L’esecuzione, però, è personale: decisamente wasp e calvinista, da ricche americane che i million dollars non li sbattono in faccia a nessuno, ma se li godono in clausura. La loro moda è sussurrata e pratica, non prevede tacchi e nemmeno picchi di colore, ha una matrice maschile. La prova di questa stagione è lirica, di una essenzialità che rasserena occhi e spirito. Il nitore asciutto delle linee stempera nel vibrare tenue delle tinte pastello da Shang Xia, marchio cinese, parte del gruppo Exor, disegnato con piglio sicuro da Jang Li. Nel mondo di Ludovic de Saint Sernin minimalismo vuol dire, alla lettera, minimo: gli abiti coprono appena, rivelando fisicità fluide e ambigue, amplificando il sex appeal.

Dove non è rigore, sono trine, falpalà e corsetti. Da Undercover, rouche di pizzo bordano i tagli e le fenditure che, alla stregua di colpi di rasoio, attraversano giacche e abiti invero molto eleganti. Colpisce l’equilibrio perfetto tra furia punk e grazia. Balmain è un teatrino baraccone traboccante citazioni mal digerite da Gaultier e Westwood, accessoriato da zeppe come rocce.

Lo show di Dior è concepito come una festa barocca: le stesse che si svolgevano nel Jardin des Tuileries, che adesso ospita il tendone della sfilata; le stesse volute da Caterina de’ Medici, cui la collezione è ispirata. Il fantasma dell’italiana di Francia si manifesta in una pletora di bustini, crinoline e zeppe, con un occhio ancora una volta a Vivienne Westwood, la prima a sdoganare il potere eversivo dei riferimenti al costume storico. Chiuri però è concreta: i suoi bustini sono quasi dei gilet, mentre le crinoline sono spesso sostituite da giochi di coulisse che permettono di regolare la lunghezza. L’effetto è insieme teatrale e plausibile, ripetitivo ma rassicurante.

La teatralità di Rick Owens, invece, è di tutt’altra natura: muove dall’epitome della femme fatale nei film storici dei primi del secolo scorso, passa dall’antico Egitto in chiave fuilleton, si concretizza in una visione cruda e carica di colore, tesa tra passato remoto e futuro anteriore. Il cortocircuito di elementi è risolto con una maestria che è insieme abilità nel plasmare gli abiti e acume nel costruire l’immagine. Sublime.

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