di Francesco Prisco
Wayne Shorter con il sax tenore in uno scatto del 2005. L’artista è scomparso a 89 anni nella sua casa di Los Angeles (Afp)
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Non esistono note sbagliate nel jazz, così come non esistono vite senza senso sulla faccia di questa terra. Ne era profondamente convinto Wayne Shorter, maestro del sassofono, buddista praticante e, a suo modo, filosofo, morto all’età di 89 anni nella sua casa di Los Angeles. Nella percezione comune, si è fermato giusto un passo prima di quel sancta sanctorum della musica classica nera che riunisce i vari Louis Armstrong, Charlie Parker, Miles Davis e John Coltrane, eppure gran parte del jazz che ascoltiamo oggi è figlio delle intuizioni che ebbe come strumentista, compositore e arrangiatore.
Wayne Shorter con Danilo Perez (2008)
Prima di tutto il resto, parla il curriculum: Shorter suonò nei Jazz Messengers di Art Blakey, nel secondo quintetto di Miles Davis e poi fondò i Weather Report, un po’ come se, per un calciatore, dicessimo che ha giocato nel Brasile di Pelé, nell’Ajax di Cruijff e nel Napoli di Maradona. Impossibile? Per il calcio sì, ma nulla è veramente impossibile in musica: Wayne era profondamente convinto anche di questo. E si sente.
Wayne Shorter riceve l’ultimo Grammy della sua carriera nel 2022 (Afp)
Tutti noi esseri umani siamo il frutto dell’ambiente che ci produce. Shorter nasce a Newark nel 1933: è coetaneo e concittadino di Philp Roth, il più grande romanziere del Novecento senza se e senza ma. Come Roth è un provinciale talentuoso, non è ebreo ma ha la pelle nera, in ogni caso la Grande Mela è sempre là, appena varcato l’Hudson, pronta per essere morsa. La sua via di Damasco è la macchina di papà che lo riaccompagna a casa dalla scuola, ancora bambino, con l’autoradio sintonizzata su una stazione jazz da cui escono Bud Powell e Thelonious Monk. Sono gli anni del be-bop ed è quella la musica che il piccolo Wayne vuole fare, tanto che si mette a studiare sassofono.
Dettaglio della copertina dell’album «Speak no evil» di Wayne Shorter
Fan di Coleman Hawkins, si butta sul tenore: studierà per quattro anni lo strumento alla New York University, prima di partire militare, negli anni Cinquanta una specie di scuola di specializzazione per tanti strumentisti americani. Sotto le armi, infatti, conosce il pianista Horace Silver che rimane colpito dalla sua tecnica e gli presenta le persone giuste. È così che Shorter, una volta congedatosi, incide il suo primo album da band leader, Introducing Wayne Shorter (1959) e si fa notate da Art Blakey che lo vuole come pilastro della nuova incarnazione suoi Jazz Messengers, fase che ci regala un capolavoro come A night in Tunisia (1961) per cui Wayne compone Sincerely Diana. Con i «messaggeri» trascorre quattro esaltanti anni, ricoprendo di fatto il ruolo di arrangiatore.
Miles Davis con il secondo grande quintetto
Intanto sul jazz americano si abbatte una supernova chiamata John Coltrane. Shorter ne rimane profondamente impressionato: capisce che il suo orizzonte è la sperimentazione e (come Trane) allarga il suo spettro al sax soprano. È un onore immenso, per lui, entrare a far parte del secondo grande quintetto di Miles Davis (nel primo, nel suo ruolo, giocava Trane in persona). Più che una band è un dream team: oltre a Wayne ci sono Herbie Hancock al piano, Ron Carter al basso, Tony Williams alla batteria. Scopriamo l’acqua calda: Miles era un formidabile pigmalione. Sono anni di grande fermento per Shorter, dentro e fuori il Second Great Quintet: da band leader compone Speak No Evil e Black Nile, per Miles Footprints e Nefertiti, title track del capolavoro davisiano del 1968. Non è un caso se Hancock, che di Shorter si definisce il migliore amico, a proposito del quintetto dirà: «Il maestro della scrittura per me, in quel gruppo, era Shorter. Wayne è stato uno dei pochi a portare a Miles musica che lui non ha modificato».
Wayne Shorter con i Weather Report
Poi arriva la fase del Miles elettrico, di album fondamentali come In a Silent Way (1969) e Bitches Brew (doppio del 1970 per cui Wayne produce la conclusiva Sanctuary, altro formidabile saggio di composizione jazzistica). Qui Shorter approfondisce il feeling con Joe Zawinul: insieme fonderanno e rimarranno i due pilastri dei Weather Report, la band che ha di fatto inventato il canone di tutto ciò che chiamiamo fusion o jazz rock. Straniere genti, ascoltatevi Heavy Weather (1977) e ci metterete poco a capire che il sax, nel famoso spot anni Ottanta sulla Milano da bere, lo suonava proprio Wayne. Erano effettivamente «previsioni del tempo» le loro: nel senso che la loro musica era capace di prevedere ciò che poi, musicalmente parlando, sarebbe successo un anno dopo l’altro. Wayne non è rimasto fermo lì, in ogni caso. Ha collaborato tanto al di fuori dell’alveo del jazz (si segnalano i servigi resi a Joni Mitchell, Steely Dan e al nostro indimenticabile Pino Daniele nell’album Bella ’mbriana), ha inciso 25 album solisti fino a Emanon (2018), condiviso con Danilo Pérez, John Patitucci e Brian Blade, composto 200 brani, vinto 12 Grammy - uno dei quali, nel 2015, alla carriera - ed è stato insignito di un premio speciale al Kennedy Center nel 2018.
Wayne Shorter riceve il premio al Kennedy Center (Afp)
Ciò che è stato su questa terra, in ogni caso, gli interessava fino a un certo punto. «Ci sono colori che non possiamo vedere, ma sono collegati a quelli che possiamo vedere, c’è una connessione tra tutto», amava dire. Ci piace pensare che adesso abbia raggiunto pienamente quella connessione. Che, a occhio e croce, non sarà troppo diversa da un suo assolo di sax.
Francesco Prisco
Redattore
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