di Angelo Flaccavento
Valentino Haute Couture PE 2023
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L'eterno interrogativo intorno alla couture riguarda la rilevanza di quest'arte antica, espressione di un mondo di protocolli e privilegi, nel contesto dell'oggi, così apparentemente inclusivo e democratico. La domanda si pone puntualmente a ogni edizione, per rimanere ogni volta senza risposta. Succede anche a questo giro, mentre l'azione si polarizza su vestiti normali e creazioni straordinarie, ma non sempre sul bello - qualsiasi cosa esso possa significare oggi.
Al meglio, la couture, è un laboratorio: un territorio, insieme, di sperimentazione tecnica e di elaborazione di nuove estetiche. Pierpaolo Piccioli fa collidere il mondo di Valentino con quello del clubbing, i volant e i fiocchi con i look spericolati di Leigh Bowery, i pizzi con le plastiche dei nottambuli incalliti. Sceglie un ex club, sotto il ponte Alexandre III, come luogo dell'evento, e tutto torna nell'idea in divenire della risignificazione della storica maison.
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Come il ponte, magnificente, imponente, cesellato e dorato, nasconde sotto i bastioni antri bui ma festaioli, così la collezione è una crasi di grandeur romana ed edonismo discotecaro. Piccioli guarda a quei club, come il londinese Tabboo o l'immaginaria discoteca del film Liquid Sky, nei quali negli anni Ottanta il look assurse a statement estetico politico, gesto supremo di autodeterminazione. Lambisce territori perigliosi come il kitsch, il volgare anche; alla madame sostituisce la showgirl. Ma si ferma un istante prima della deflagrazione ed è adamantino nel dichiarare «in quegli anni il clubbing era territorio di deroga autorizzata, mentre per me l'idea di liberare esteticamente l’individuo è valida sempre; ancora meglio se alla luce del giorno». Il risultato è una scossa elettrica: una collezione che sovverte l'idea di grazia cui Piccioli ci aveva abituato, sostituendola con una espressione tagliente, dura. È una collezione che lascia pensierosi, come sempre quando avviene un reset. Cercare nuove forme di bellezza vuol dire spingere a riflettere, anche provocando.
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Viktor & Rolf sperimentano con infinita maestria tecnica e verve umoristica. La collezione sembra il risultato di un incidente frontale tra i corpi idealizzati e perfetti di modelle aerografate come bambole e classici abiti da ballo con il bustino e la gonna di tulle: alcuni vanno a gambe per aria, altri di traverso, altri ancora si staccano dalla figura come una stampa fuori registro. Vestito e corpo si separano o congiungono, in un dramma virtuosistico ospitato nel più classico luogo da sfilata di alta moda: il salone stuccato e con enorme chandelier dell'hotel Intercontinental.
Da Gaultier Paris, da qualche stagione, il disegno di business prevede il contributo di un designer ospite, che interpreta i codici di Jean Paul, eterno enfant terrible, aggiornandoli. A questo giro tocca ad Haider Ackermann, autore quanto mai fosco, anche greve, lontanissimo dallo humor e dagli sberleffi di Gaultier. Il clash è pieno di pathos: di Gaultier rimangono pochi segni, come le coppe di un bustino, o l'androginia sensuale dello smoking, filtrati attraverso la sensibilità coloristico-architettonica di Ackermann. Le forme pure, perfette come un Balenciaga o un Ferré, sono trasfigurate dal colore, dai contrasti spigolosi delle fodere. È una celebrazione di bellezza vera: sublime e meravigliosamente anacronistica.
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