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Starbucks, viaggio nel primo negozio (o quasi) di una bottega da 20 miliardi di dollari

di Alberto Magnani

Da Nestlé a Starbucks, da Lavazza a Illy, i big nella partita mondiale del caffè

13 maggio 2018
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3' di lettura

Seattle - Il marchio che ha appena fatto spendere a Nestlé 7 miliardi di dollari per vendere le sue miscele in giro per il mondo è cresciuto in un negozietto di Seattle, nascosto fra il mercato del pesce e il via vai di turisti che si accalcano fuori dalla sua vetrina. Un caffè come ce ne sono a miliardi, soprattutto negli Stati Uniti, se non fosse per un brand che si farebbe riconoscere anche a Tokyo o Berlino: Starbucks. È qui, al 1912 di Pike Place, che l'attuale colosso delle caffetterie ha mosso i suoi primi passi nella metà degli anni '70, dopo una primissima sede pochi isolati più in là.

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Come nella migliore retorica americana, la multinazionale è nata dalla «intuizione dei suoi fondatori», in questo caso due insegnanti e uno scrittore che si sono dati alla vendita di chicchi di caffè prendendo in prestito il nome di un personaggio di Moby Dick. Ma l'azienda, per come la conosciamo ora, è il frutto del lavorìo di Howard Schultz, l'imprenditore che ha trasformato una piccola catena da 10 punti vendita in un colosso con quasi 29mila negozi e quasi 23 miliardi di dollari di ricavi annui. Schultz sostiene di essere stato ispirato da una visita a Milano negli anni '80, quando ha scoperto che il caffè italiano era un rito, più che una tazza da un dollaro da trangugiare di fretta. E ora, proprio a Milano, Starbucks romperà il tabù del mercato italiano con uno store da 2.400 metri quadri in Piazza Cordusio, con inaugurazione fissata sul calendario per i primi di settembre.

Tra selfie e confezioni di caffè
Per entrare nel negozio che ha dato origine a tutto, o almeno al brand, bisogna farsi largo fra visitatori che scattano foto alle enormi confezioni di Espresso e caffè del Guatemala, oltre alla targa che lo qualifica come «primo Starbucks store dal 1971 (anche se in realtà è il secondo ed è lì dal 1976, ndr)». Dopo essersi limitato per anni alla vendita di chicchi e spezie, il Pike Place 1912 (si chiama così) ha accolto progressivamente una macchinetta per l'espresso e le varie specialità dell'azienda, come l'immancabile frappuccino. Ma l'elenco finisce qui, perché a differenza dei suoi migliaia di omologhi il negozio non serve cibo e si presterebbe a fatica al ruolo di spazio di coworking. A partire da un dettaglio: non si siede nessuno. Si fa la coda, si aspetta il caffè e si esce, evitando di rovinare i selfie dei turisti che si immortalano nell'estetica volutamente vintage del negozio. Confezioni di caffè, gadgert, qualche poster un po' rétro e alcune bizzarrie, come un maiale di chicchi di caffè posizionato sopra l'entrata (si chiama «Pork'n'beans» e, si apprende sul sito aziendale, ha partecipato a un concorso nel 1971 per la raccolta di fondi a favore del mercato di quartiere).

Un business nel business
A Seattle, il negozio è diventato un'attrazione turistica che si contende tranquillamente lo scettro con lo Space Needle, il museo del rock e il mercato di Pike Place, che tra l'altro ha il pregio di essere dall'altro lato della strada. Un business nel business capace di catturare centinaia di migliaia di visitatori l'anno, con il proprio carico di ordinazioni e acquisti di souvenir. Come precisa la stessa Starbucks, il locale vanta volumi di vendita record per gli Stati Uniti, nonostante una dimensione (110 metri quadri) che lo rende microscopico rispetto agli oltre 13mila negozi e megastore distribuiti nei soli States. Ma del resto, memorabili a parte, sono le vendite di Starbucks che vanno per la maggiore. Oggi il gruppo apre quasi 500 nuovi negozi a trimestre, domina il mercato degli Usa (con un'incidenza del 39%) e ha esportato il suo modello in oltre 70 paesi, dall'Andorra al Vietnam.

Nel suo portafoglio di brand ce n'è anche uno che può attrarre i turisti europei, «Torrefazione Italia», fondato effettivamente da un connazionale a Seattle e rilevata dal 2003 da Starbucks. Oggi è commercializzata con quel marchio che fa pensare all'Italia, pur non essendo italiano, esattamente come il «primo negozio di Starbucks» capitalizza i suoi ricordi pur non essendo il primo. Questione di metodo. Come ha detto una volta Schultz all'Harvard Business Review, «bisogna credere nel proprio cuore che questo funzionerà». Quando si vendono chicchi di caffè di fronte al porto di Seattle, o quando si vende la propria immagine al resto del mondo.

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