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Chip shortage: ecco perché (anche secondo Intel) la Ue deve investire nei semiconduttori

di Gianni Rusconi

Auto: crisi chip, in 3 anni 14 milioni veicoli in meno

Un nuovo report realizzato dalla società di consulenza Kearney per conto di Intel, ha fatto per l'appunto luce sull'attuale scenario

13 novembre 2021
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5' di lettura

IIl problema è noto: c'è carenza (grave) di componentistica elettronica e basta chiedere ai costruttori di auto per farsi un'idea della portata di un problema che, dopo essersi manifestato all'indomani del primo lockdown, nella tarda primavera del 2020, ha assunto nei mesi successivi una dimensione globale e trasversale a molti settori. Mancano chip, sensori e memorie che fanno funzionare centraline, computer e apparecchiature di vario genere e da questa situazione non se ne uscirà molto presto. Molti addetti ai lavori, compreso il Ceo di St Microelectronic, Jean-Marc Chery, parlano del 2023, ma è difficile a detta degli esperti stabilire (oggi) una data certa perché la situazione è ancora parecchio volatile e differente fra industry e industry e fra mercati e mercati.

Lo “shortage” di chip, questo è certo, non ha però solo fermato catene di assemblaggio e rallentato ordini e consegne del prodotto finito ma ha messo anche sotto i riflettori il grado di dipendenza dell'economia europea dai semiconduttori “made in Asia”. L'urgenza di investire a livello Ue in un vero e proprio ecosistema, che superi l'empasse di una produzione locale limitata e che cancelli il rischio di perdere una sovranità tecnologica vitale per mantenere competitività a lungo termine, è conclamata. Lo è nei numeri e nei tempi, lo è a livello di infrastrutture e lo è naturalmente in termini di accesso ai talenti Stem per fare ricerca e sviluppo.

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La domanda di chip “evoluti” raddoppierà entro il 2030

Un nuovo report realizzato dalla società di consulenza Kearney per conto di Intel, che il Sole 24 Ore ha visionato in anteprima, ha fatto per l'appunto luce sull'attuale scenario e cercato di trovare delle risposte di lungo termine. Mettiamo a fuoco innanzitutto un dato, quello della domanda di semiconduttori tecnologicamente più avanzati (basati cioè su tecnologia di processo dai 10 ai 5 nanometri): questa raddoppierà nella Ue entro il 2030 con un tasso di crescita annuo del 15% per arrivare a coprire il 43% di una torta che vale poco meno di 80 miliardi di dollari.

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All'aumentare dei consumi dei chip più evoluti (memorie quindi escluse), l'Unione Europea difficilmente saprà però rispondere in modo adeguato in assenza di un cambio di passo sostanziale. Basti pensare che nel 2000, come si legge chiaramente nel rapporto, il Vecchio Continente deteneva quasi il 25% della capacità produttiva mondiale di semiconduttori e oggi questa percentuale è scesa all’8%. Ancora peggiore è il dato relativo ai chip “leading-edge”, con una quota di mercato precipitata in 20 anni dal 19% allo zero mentre quelle di Sud Corea e Taiwan sono decollate, rispettivamente, dall'8 al 18% e dal 17 al 40%.

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Cosa fare per invertire la tendenza

Rivitalizzare l'ecosistema dei chip in Europa, e quello dei chip basati su tecnologie all'avanguardia in modo particolare, è quindi il passo necessario per recuperare terreno e generare sostanziali benefici di natura economica. Gli obiettivi, almeno sulla carta, sono chiari: la Ue ha l'ambizione di raddoppiare la propria fetta di mercato nei semiconduttori e portarla al 20% entro la fine del prossimo decennio ma l'attuale disallineamento di vedute fra i vari Paesi non è certo un buon viatico per raggiungere i target prefissati. Eppure, come evidenziano gli analisti di Kearney, gli ingredienti di base per recitare un ruolo di primo piano nell'industria dei chip non mancherebbero: capacità avanzate di ricerca e sviluppo, talento ingegneristico e nel design, forza finanziaria, infrastrutture e impianti di produzione. L'integrazione di questi elementi è storicamente un punto di forza dell'Europa, e l'industria automobilistica ne è stata per anni (e ancora per il momento) una conferma. Ridare forza al settore dei semiconduttori, dando vita a fabbriche in grado di produrre a volumi processori a 5 nanometri, creerebbe inoltre un volano positivo e un ritorno economico (sotto forma di prodotto interno lordo) che in dieci anni sarebbe di 2,1 volte superiore all'investimento iniziale. Senza dimenticare le opportunità per le startup locali, gli effetti benefici sulla resilienza della catena di approvvigionamento e le possibili economie di scala su una materia prima mai così preziosa.

Il nodo dei costi e le alleanze con i chip maker

Se un'inversione di rotta è improcrastinabile per non perdere ulteriori posizioni sullo scacchiere globale, è anche vero che oggi avviare e condurre una “fab” all'avanguardia in Europa è decisamente più costoso rispetto alla Corea del Sud e a Taiwan. Servono quindi sinergie e politiche comunitarie mirate in fatto di incentivi. Il report, in tal senso, suggerisce due strade da seguire in parallelo: quella di stimolare lo sviluppo e la produzione di chip tecnologicamente avanzati e quella di collaborare con i principali player del mondo dei semiconduttori. I nomi sono noti. Le varie Intel, Samsung e TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, dalle cui fabbriche esce circa la metà dei semiconduttori utilizzata nel mondo) si sono impegnate a investire complessivamente più di 300 miliardi dollari entro il 2030 ed è facile capire come questa possa essere un'opportunità unica per combinare i punti di forza dell'industria tecnologica europea con l'esperienza e le risorse di multinazionali che hanno in mano le sorti dell'economia digitale.

La mega fab “europea” di Intel

Una fabbrica targata Intel in Italia è per il momento un'indiscrezione rimbalzata nelle scorse settimane e poco più ma è concreto il fatto che Belpaese voglia giocarsi la chance (con Germania, Francia e Polonia) di aprire le porte all'illustre partner e dare vita a un impianto per la produzione di chip (l'area di Mirafiori a Torino o Catania, dove già opera STMicroelectronics, le possibili sedi). Il Governo metterebbe sul piatto una serie di incentivi (sottoforma di costi calmierati per lavoro ed energia) e l'azienda californiana un investimento iniziale di 4 miliardi di euro, con l'impegno di creare oltre mille posti di lavoro. Solo una suggestione? Per il momento si rimane nell'ambito delle opzioni possibili. Greg Slater, Vice President and Senior Director (e Global Regulatory Affairs) di Intel ha ribadito in tal senso come il punto chiave sia la creazione di un ecosistema europeo e come la strategia di espansione della casa di Santa Clara in Europa (che potrebbe portare a investimenti pluriennali per complessivi 100 miliardi di dollari, a fronte di significative sovvenzioni) continui a contemplare il progetto di una mega fabbrica distribuita in più sedi fra R&D, produzione, testing e packacing. La decisione di Intel è attesa per la fine dell'anno. Nel frattempo, è chiara una cosa, ed è lo stesso Slater a sottolinearla: «produrre chip a 5 o 7 nanometri è molto complesso, servono tecnologie, infrastrutture e processi di produzione avanzati ed è quindi molto difficile che un nuovo player possa entrare in gioco». Il punto è quindi un altro: l'Ue deve trovare la formula per attrarre dentro i propri i confini i grandi chip maker internazionali. E per farlo deve investire. Tanto.

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