di Silvia Pagliuca
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«C'è una vita prima e una vita dopo. Prima, da dipendente, sempre di corsa e in lotta con la campanella della scuola di mio figlio, con il traffico dell'ora di punta e con il cartellino da timbrare per entrare al lavoro nei tempi previsti. Dopo, da freelance, con più rischi finanziari, ma meno ansia nella gestione quotidiana. Soprattutto, con più tempo per le cose che contano». A parlare è Chiara Brandi, esperta di marketing, consulente per progetti digitali e founder di genuino.zero, piattaforma per la distribuzione di prodotti di filiera corta in città.
Dopo una vita da product manager per una multinazionale, decide di cambiare strada e reinventarsi. «Diventata mamma, conciliare i frequenti viaggi all'estero richiesti dalla mia posizione, i meeting serali e la totale assenza di flessibilità dell'azienda, è diventato impossibile. Così, ho deciso di dimettermi. Non è stato facile, ma non tornerei indietro. Oggi, ho creato un'agenzia diffusa di food marketing con altre colleghe, che sono mamme e freelance come me, con cui rendiamo reale la conciliazione, senza rinunce e sensi di colpa».
Quella di Chiara è una storia comune a moltissime altre donne che negli ultimi mesi hanno scelto di cambiare strada. Solo nel 2022 sono state oltre 1,6 milioni le dimissioni registrate (da gennaio a settembre) in Italia, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. E confrontando in modo congiunturale il secondo e il terzo trimestre, le dimissioni sono cresciute tra le donne (+4.386) e calate tra gli uomini (-25.915).
In alcuni casi sono state decisioni cariche di determinazione e passione, in altri, inversioni di rotta più timide, affrontate con mano tremante. Ma in molti casi sono portatrici sane di una stessa esigenza: ritrovarsi. Ritrovare tempo per se stesse e per la propria famiglia, riconoscendo nel lavoro un progetto in cui credere, non solo un luogo in cui andare. E per crederci, bisogna poter condividere gli stessi valori: flessibilità, meritocrazia, crescita sostenibile.
La ricerca di un nuovo equilibrio ha portato, ad esempio, Bruna Carvalho a cambiare radicalmente vita e lavoro. Dopo diverse esperienze lavorative vissute sempre alla massima velocità, tra l'Italia e la Svizzera, Carvalho ha sentito il bisogno di tornare all'essenziale: alla propria famiglia, alla natura. Subito dopo la pandemia, ha lasciato il lavoro e cambiato città, si è spostata dalla frenetica Roma alla placida campagna toscana, ha acquistato con suo marito un podere a un passo da Bolgheri e ha creato un B&B ispirato alla bellezza autentica, circondato da un giardino emozionale e da un bosco di 8 ettari, La Gualda Vecchia, un ritrovo per viaggiatrici e viaggiatori in cerca di silenzio e semplicità.
«Qui, i miei figli vivono all'aria aperta tutti i giorni e stanno scoprendo uno stile minimal, meno consumistico e più consapevole» racconta. La stessa filosofia si ritrova in ogni angolo del casale: soprammobili, stoviglie, mobilio e biancheria sono stati realizzati – o portati a nuova vita - da artisti del luogo. «A volte le persone mi chiedono: ma sei sicura di voler mettere a disposizione dei tuoi ospiti questi oggetti così belli e rari? Ma il mio progetto non avrebbe senso se non lo condividessi con gli altri. Con libertà e fiducia. Sono questi i valori che hanno guidato la mia scelta controcorrente e sono quelli che, spero, potranno ispirare tante altre donne nel disegnare nuovi percorsi».
L'aspetto valoriale è centrale nel nuovo mondo del lavoro, come confermano numerose indagini. Il MIT sostiene che a guidare le dimissioni delle donne sia stata soprattutto la presenza di una cultura tossica nell'azienda in cui lavoravano. Ovvero: comportamenti non etici, mancata promozione della diversità, dell’equità e dell’inclusione e una condotta poco rispettosa delle persone. E la mancanza di rispetto sul lavoro si è classificata al terzo posto tra i motivi di dimissione per le donne anche secondo il Pew Research Center. Rispetto che significa anche gestire in modo diverso, più umano, una fase estremamente vulnerabile come la maternità.
La maggior parte delle dimissioni femminili registrate in Italia nell'ultimo anno, infatti, hanno avuto come motivazione principale la difficoltà nel conciliare la vita lavorativa con quella familiare.
«Perché dovremmo nascondere di avere una famiglia? Perché dovremmo mettere i nostri figli in secondo piano, riservando loro solo le energie finali della giornata? Perche dovremmo continuare a fare le equilibriste? Siamo cresciute con questi modelli ma oggi abbiamo la concreta possibilità di mettere in pratica comportamenti diversi» riflette Sara Plaga, che una volta diventata mamma ha lasciato il lavoro da dipendente nell'azienda per cui lavorava da 10 anni, per fondare una start up specializzata in pannelli fotovoltaici a origami, Levante, nome che si ispira a quello della sua primogenita, Aurora, e che simboleggia proprio la rinascita.
«Il lavoro 9.00–18.00 non mi avrebbe consentito di vivere appieno le mie figlie. E io non volevo rinunciare a una cosa o all'altra. Così, con mio marito, abbiamo deciso di dimostrare che è possibile vivere e lavorare in modo diverso. Le nostre bambine sono parte integrante della start up: vengono con noi ai pitch, partecipano ai meeting con gli investitori, ci seguono negli incontri con i fornitori. Se a qualcuno non va bene, vuol dire che questa persona non condivide i nostri valori, dunque, non può lavorare con noi».
Una decisione giudicata da molti come avventata, eppure potenzialmente dirompente.
A Sara Canali, anche lei startupper, è accaduto qualcosa di simile. Dopo una carriera internazionale come responsabile di prodotto, design e innovazione per brand leader a livello mondiale nell'abbigliamento sportivo, ha rivoluzionato la sua carriera. Anche in questo caso, il fattore scatenante è stato l'arrivo di suo figlio Leon.
«Avevo 41 anni e fino a quel momento avevo dato tutto al lavoro, accettando sfide e responsabilità. Poi, sono diventata mamma e al rientro dalla maternità il mio posto non c'era più. O meglio, non era più quello che avevo lasciato. Evidentemente, l'azienda aveva fatto altre valutazioni. Così, sono andata via e ho deciso di scommettere da sola su me stessa» confida.
Con un bimbo di appena tre mesi, si è iscritta a un master in innovazione alla Stanford Graduate School of Business, in Silicon Valley: «Quando lavoravo nel campo dell'abbigliamento sportivo, mi ero accorta che c'era un grosso gap nel modo in cui venivano creati i capi per le donne. Del resto, erano pensati dagli uomini. Io volevo creare un'azienda basata su una visione diversa, che innovasse profondamente il settore».
Ed è ciò che ha fatto subito dopo il master. Tornata a casa, in Alto Adige, ha fondato Sher, start up che crea capi d'abbigliamento sportivo con una vestibilità tutta al femminile. Una realtà che sta facendo crescere nell'incubatore di NOI Techpark, l'hub dell'innovazione altoatesino.
«È un'esperienza molto impegnativa, ma non tornerei indietro. Non voglio più lavorare per organizzazioni che non valorizzano i talenti delle persone, delle donne in particolare. Il valore delle aziende è dato dagli esseri umani che le compongono, fino a quando non capiremo questo, non potremo davvero progredire».
Ma, non solo la maternità. Altro fattore che scatena la voglia di lasciare il lavoro per costruire nuovi percorsi, è la mancanza di progressione nelle carriere. La difficoltà nel raggiungere i vertici, sfondando il cosiddetto «soffitto di cristallo», spesso si accompagna al «gradino rotto» che le donne incontrano fin dall'inizio della scalata professionale. Ergo: le donne sono spesso confinate a ruoli minoritari, meramente esecutivi e, per quanti sforzi facciano, difficilmente riescono a progredire.
Un recente report di McKinsey sostiene, infatti, che per ogni donna che viene promossa al livello successivo, due donne scelgono di lasciare l'azienda perché sperimentano più degli uomini delle microaggressioni o dei pregiudizi, perchè sono troppo oberate di lavoro, perché vorrebbero più flessibilità (solo 1 donna su 10, potendo scegliere, lavorerebbe esclusivamente in presenza) e perché lavorano in aziende poco impegnate per la diversity, l'equity e l'inclusion. Perciò, se la conciliazione è una motivazione importante per lasciare il lavoro, non da meno lo è l'ambizione e la frustrazione conseguente per il non riuscire a realizzarsi.
Monica Perna è d'esempio: insegnante di inglese, ha dato una svolta definitiva alla sua carriera, lasciando l'Italia per cercare migliori opportunità all'estero. «Non volevo sentirmi bloccata in un Paese che per le donne è ancora troppo limitante. Volevo poter giocare da titolare, uscire dai ruoli stereotipati che ci vengono assegnati, dimostrare di potercela fare da sola. E così ho fatto: sono partita per Dubai, sono diventata english coach e ho creato un'impresa dedicata al Globish a cui oggi collaborano 40 persone, per l'80% donne provenienti da tutto il mondo».
Una sensibilità che diventa comune a tanti business al femminile: l’Osservatorio Women in Business di SumUp su 2.900 imprenditrici in 4 nazioni (Italia, Francia, Germania e UK) conferma infatti che il 38% delle imprenditrici tende ad avere una forza lavoro composta tra il 75% e il 100% da donne, con l'obiettivo di contribuire all’empowerment femminile.
«La verità è che in Italia siamo cresciute pensando di dover stare sempre un passo indietro rispetto agli uomini. Io ho cercato una risposta diversa scommettendo su un Paese proiettato nel futuro. E sono riuscita, così, a costruire un'azienda inclusiva, come quelle che mi sarebbe piaciuto incontrare qualche anno fa nel mio Paese» conferma Monica Perna, considerata oggi una delle 50 imprenditrici più innovative dal World Entrepreneurs Day 2022 GammaDonna.
«Non avrei mai pensato di realizzare tutto questo in così poco tempo, eppure è successo. Perciò – conclude - alle tante donne che lasciano il lavoro e si sentono sconfitte per questo, vorrei dire una cosa: quando ti dicono che non puoi farcela, ti stanno mostrando i loro limiti, non i tuoi».
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