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La finanza innovativa è un realtà, ma servono credibilità e trasparenza

di Claudio Tebaldi *

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Il rapporto tra innovazione tecnologica e finanziaria ha radici antiche, ma alzi la mano chi non prova una certa inquietudine nell’apprendere dai media che la diffusione delle criptovalute è ormai una realtà che coinvolge ampie fasce di popolazione

5 maggio 2022
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3' di lettura

Il rapporto tra innovazione tecnologica e finanziaria ha radici antiche, ma alzi la mano chi non prova una certa inquietudine nell’apprendere dai media che la diffusione delle criptovalute è ormai una realtà che coinvolge ampie fasce di popolazione, in particolare le coorti più giovani, i millennials. Secondo i dati riportati nell’ordine esecutivo sulle monete digitali recentemente emesso dalla Casa Bianca, l’investimento in asset digitali a fine 2021 superava i tre trilioni di dollari a valori di mercato. La filiera alla base di questo successo è ben nota. La narrativa delle criptovalute, scandita al ritmo di Twitter, arriva forte e chiara e riverbera sulle piattaforme di blogging. L’ultimo miglio è coperto dal prodotto del fintech, le app scaricabili che offrono accesso diretto alla compravendita di criptovalute tramite web e ci proiettano nell’era del trading finanziario di massa.

L’inquietudine diventa disagio quando si cerca di definire la logica finanziaria di queste transazioni. Il problema è talmente complesso dall’aver richiesto una legge, il Digital Taxonomy Act, per definirne l’esatta natura. Nel dettato legislativo approvato dal Congresso americano, si introduce la nozione di digital token, il gettone digitale, che comprende come caso particolare quella di criptovaluta. Il legislatore chiarisce esplicitamente che il token non è assimilabile ad un investimento nel capitale di una società. Infatti non determina alcun diritto di proprietà, di partecipazione ai profitti, né garantisce un margine di interesse. Dunque la logica che usualmente si applica per decidere l’appetibilità di uno strumento finanziario, in questo caso gira a vuoto. La quotazione della criptovaluta non è ancorata al valore di alcun bene tangibile.

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Bastano queste semplici considerazioni per chiedersi se, dopo lo “slow food”, non valga la pena di cedere alla tentazione di astenersi anche dalla corsa all’oro digitale e preferire la “slow finance” dei mercati centralizzati. Pur richiamando la primaria necessità di tutelare l’investitore, è semplicistico e sconsigliabile ridurre le monete digitali a puro fenomeno speculativo.

Per almeno una specifica categoria di investitori professionali è possibile ricostruire la logica finanziaria soggiacente all’utilizzo delle monete digitali seguendo il classico principio investigativo follow the money. I venture capital dedicati allo sviluppo di applicazioni Internet del cosiddetto Web3 operano investimenti dell’ordine dei miliardi di dollari mediante token. In questo specifico ambito, l’emissione di moneta digitale o Initial Coin Offering (ICO), funziona come uno strumento alternativo di raccolta del capitale e non è difficile comprendere perché essa risulti preferibile ad altre più tradizionali.

La scelta di finanziare lo sviluppo di una applicazione software mediante token ha molte analogie con la scelta di sviluppare in modalità open-source. Anche la scelta di condividere il codice dell’applicazione rinunciando ai diritti di proprietà riduce il valore tangibile del software sviluppato. Ma è ben noto che tale modalità incentiva dinamiche collaborative tra programmatori che migliorano il prodotto e ne promuovono l’utilizzo. Allo stesso modo, l’emissione di un token può essere utilizzata per finanziare i costi di sviluppo e per remunerare un “ecosistema” di sviluppatori e di utilizzatori. Al crescere della domanda di servizi acquistabili mediante il token ci si attende aumenti anche il valore della moneta digitale. Un suo apprezzamento remunera tutti gli stakeholder, dunque ne allinea gli incentivi e ne promuove la cooperazione. Infine, associando diritti di voto ai token emessi su una blockchain, si possono implementare forme di governance partecipativa e decentralizzata. In via ipotetica, l’analogia tra gli ecosistemi digitali del Web3 e le aggregazioni di piccole e medie imprese lascia presagire la possibilità di finanziare anche le reti di imprese mediante l’emissione di token. Tale modalità si integra naturalmente con le strategie produttive di Industria 4.0, preserva l’indipendenza delle imprese individuali e dunque rimuove il principale ostacolo che rende inutilizzabili gli strumenti finanziari di raccolta tradizionali. L’investimento mediante token è remunerato in relazione alla qualità e all’esclusività dei servizi sviluppati e offerti dalla rete, riduce l’esposizione al rischio di insolvenza delle imprese individuali ma offre protezione ridotta in caso di distress sistemico della rete, dal momento che non garantisce alcun diritto reale sui profitti o sulla proprietà.

Il nostro sistema imprenditoriale e finanziario ha tutte le competenze necessarie per implementare queste forme di finanza innovativa. La vera sfida è superare problematiche antiche, accettando una cultura di mercato sostenibile che si basi su regole, trasparenza e credibilità.

(*) Direttore Scientifico del Bocconi Algorand Fintech Lab

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