di Flavia Foradini
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«I miei tre viaggi a Vienna sono stati come tre gocce d’acqua. In ciascuno di essi feci esattamente le stesse cose: al mattino andavo a vedere “L’allegoria della pittura” di Vermeer nella Collezione Czernin e al pomeriggio NON andavo a far visita a Freud perchè ogni volta mi dicevano che era fuori città per questioni di salute».
Si lamentava così Salvador Dalì nel 1942, ricordando i suoi tentativi di avvicinare il padre della psicanalisi, di cui aveva letto le opere con passione a partire dalla metà degli anni ’20, considerandole «una delle scoperte capitali» della sua vita: «Durante le sere trascorse a Vienna avevo lunghe conversazioni immaginarie con Freud. Venne anche da me una volta e restò tutta la notte aggrappato alle tende della mia stanza all’Hotel Sacher».
L’agognato faccia a faccia con Sigmund Freud ebbe luogo molto più tardi, poco dopo l’arrivo a Londra dello scienziato ottantaduenne, grazie alla mediazione di Stefan Zweig, che dicendosi convinto della genialità del 34enne artista ne perorò la causa: «Per anni ha nutrito il desiderio di incontrarvi. Sostiene che per la sua arte deve a voi più che a chiunque altro».
Durante l’incontro che si tenne a casa di Freud il 19 luglio 1938, Dalì cercò invano di presentare il proprio “metodo paranoico-critico” esemplificandolo con il dipinto “La metamorfosi di Narciso”, che aveva portato con sé. L’esito non fu realmente incoraggiante per Dalì, però quella sera Freud scrisse un biglietto a Zweig: «La devo ringraziare. Finora tendevo a pensare che i surrealisti, che apparentemente mi hanno scelto come santo patrono, fossero completamente pazzi. Però quel giovane spagnolo con gli occhi da candido fanatico e con la sua innegabile maestria mi ha indotto a pensare che sarebbe interessante analizzare la creazione di un quadro di quel tipo».
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Proprio l’innegabile influsso che lo psicanalista ebbe sull’artista è al centro della mostra aperta al Belvedere di Vienna fino al 29 maggio col titolo “Dalì-Freud. Un’ossessione”:Oltre cento opere che ben mettono in luce il profondo interesse del Surrealista per le teorie dell’inconscio. Innanzitutto dipinti, fra cui “Rimorso. Sfinge nella sabbia” e “Donna che dorme in un paesaggio” del 1931, “Me stesso a 10 anni” del 1933, “Paranoia” del 1935 o “Cigni che riflettono elefanti” del 1937. Fra i documenti spiccano quelli sulla sua amicizia con Federico Garcia Lorca, testimoniata dal manoscrito della “Ode a Dalì” che il poeta scrisse nel 1926, mentre la collaborazione con Luis Buñuel viene tematizzata fra l’altro con spezzoni da “Un chien andalou” e “L’Age d’or”. E non mancano diversi oggetti iconici creato nel tempo da Dalì, in primo luogo il telefono-aragosta del 1938.
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