di Luca De Biase
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C'è solo un modo per innovare? C'è solo un luogo al mondo che possa concentrare le risorse essenziali per attivare un processo innovativo inarrestabile, esponenziale? C'è soltanto un destino nella tecnologia?
Forse fino a qualche anno fa, molti avrebbero risposto di sì: solo a Silicon Valley c'è quello che serve per imporre al mondo il ritmo incalzante dell'innovazione che trasforma radicalmente le possibilità degli umani; e solo adottando il metodo di Silicon Valley si poteva tentare di replicare qualcosa di quel centro propulsivo globale.
Chi ricorda “La nuova geografia del lavoro” di Enrico Moretti (2013) e “Rainforest” di Victor W. Hwang (2012), libri importanti di quell'epoca, può ricostruire il clima culturale di allora. Ma oggi, la moltiplicazione dei poli di innovazione è sotto gli occhi di tutti. Israele, Taiwan, Corea hanno risultati straordinari. Germania, Francia, Regno Unito, Svezia, Canada, contengono città importanti nella mappa globale dell'innovazione digitale.
E ci si domanda: ci sono nuove possibilità per un paese come l'Italia? La realtà è complessa. Dunque lo è anche la risposta. Ma cercarla è un compito ineludibile per un paese che deve modernizzare il suo percorso di sviluppo. L'intreccio di interrelazioni tra aziende, università, venture capital, start up, media, sistemi educativi e normativi che attiva le dinamiche dell'innovazione è certamente internazionale anche se i poli di attrazione restano fondamentali.
L'innovazione avviene in ecosistemi che presentano specificità territoriali ma anche filiere lunghe connesse, per così dire, da “non luoghi” essenziali come le infrastrutture della mobilità e della gestione dei dati. Un fatto è certo: la conoscenza che serve all'innovazione cresce se tutti i protagonisti della ricerca, dell'imprenditoria, della finanza, della pubblica amministrazione, sanno comunicare e collaborare. Questa attività sono state sintetizzate una ventina d'anni fa nella formula “open innovation”.
I risultati si sono rivelati affascinanti e per certi versi entusiasmanti. Che ora incontrano una fase di ripensamento. Certo, sono stati trent'anni di innovazione incalzante. Il web, il motore di ricerca, la connessione veloce, lo smartphone, i social network, la blockchain, i big data e l'intelligenza artificiale, il sequenziamento del genoma umano, la creazione di nuovi materiali nanotecnologici, la lettura del cervello...
Una gran parte dell'accelerazione è frutto di un approccio all'innovazione chiamato, appunto, “open innovation”. Non più sistemi chiusi di ricerca e sfruttamento delle scoperte scientifiche o delle novità tecnologiche concentrati all'interno delle aziende, ma grandi sistemi di collaborazione aperta. Ebbene: la persona che ha creato questa idea, Herny Chesbrough, professore a Berkeley, da qualche tempo pensa che sia necessaria una correzione. Non perché l'”open innovation” non abbia funzionato, per molte aziende, ma perché il sistema economico nel suo complesso ha bisogno di più.
Il dubbio gli viene osservando che le tecnologie esponenziali, quelle che accelerano il potenziale innovativo delle aziende, sono in piena espansione, ma la produttività complessiva, dice Chesbrough, non cresce come avveniva nel Dopoguerra.
È una contraddizione che apre a molte domande. Forse, prima di tutto, vale la pena di ricordare a che cosa si riferisce il concetto di “open innovation”. In secondo luogo, è necessario chiedersi che cosa tutto questo significhi per il sistema imprenditoriale italiano.
Infine, si può cercare di comprendere in che senso vada ripensata l'”open innovation”. Ebbene. Che cos'è l''open innovation”? Nel suo libro fondamentale, “Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology” (2003), Chesbrough ha mostrato come i sistemi nei quali le aziende sviluppavano tutta la ricerca in casa erano meno innovativi di quelli nei quali si assisteva a una pratica di collaborazione scientifica e tecnologica tra aziende, università, start up, venture capital, e sperimentando metodi come il crowdsourcing, le hackathon, il co-design, e così via.
Il mitico Parc della Xerox era stato una fucina di innovazioni che l'azienda che lo finanziava non era stata in grado di portare sul mercato. Mentre la Cisco, tanto per fare un esempio, pur non avendo ricerca interna, cresceva alla frontiera dell'innovazione acquisendo una dopo l'altra start up specializzate. Una quantità di aziende hanno affermato di avere avuto importanti benefici dall'”open innovation”: da Procter & Gamble a General Electric e Ibm.
Il fenomeno non è per nulla una moda. Una recente ricerca di Chesbrough ha analizzato le pratiche di innovazione di 125 imprese europee e americane con più di 250 milioni di fatturato per vedere se usano la “open innovation”: 78 aziende hanno dimostrato di usare questo metodo per la loro innovazione e l'80% di queste la sta praticando con sempre maggiore intensità.
Le soluzioni più utilizzate: co-creazione dei prodotti e servizi con i clienti, sviluppo di relazioni personali nel business, finanziamenti di ricerca alle università. Alla luce di queste osservazioni, si potrebbe dire che gli innovatori italiani sembrano in buona posizione. In fondo, la co-creazione dei prodotti e servizi con i clienti è un classico delle aziende italiane che partecipano alle grandi filiere innovative ad alta tecnologia, dalle macchine industriali al packaging, dalla meccanica al software. Inoltre, gli imprenditori italiani sono naturalmente portati a sviluppare relazioni personali con i loro partner di business.
Queste, che per gli americani sono scoperte recenti, per gli italiani sono l'abc. Piuttosto, sono gli elementi strutturali dell'”open innovation” a essere meno sviluppati che altrove in Italia. Ma qualcosa si muove. C'è un'attenzione finalmente importante della finanza per le nuove aziende innovative italiane. Il miliardo di investimenti in un anno nelle startup è stato superato. L'accelerazione è importante, quasi un raddoppio all'anno. Certo, è meglio non fare confronti sui numeri degli altri paesi con economie comparabili all'Italia, come Francia e Regno Unito.
Piuttosto vale la pena di sottolineare che c'è una rincorsa. L'Innovation Scoreboard 2021 della Commissione Europea, nel quale la Svezia resta in testa, mostra che l'Italia non è tra i leader dell'innovazione ma è di gran lunga il più grande tra i cinque paesi - Cipro, Estonia, Lituania, Grecia e, appunto, Italia - che hanno recuperato più terreno dal 2014: un miglioramento doppio rispetto alla media europea.
Del resto, nel mondo delle start up, gli italiani hanno qualche vantaggio. Una regolarità emergente è che gli italiani fanno tanto con poco. Normalmente non fanno start up che cercano investitori ma nuove aziende che si finanziano con il fatturato. Ma quando imparano il modello delle start up, possono avere una marcia in più soprattutto nei momenti di vacche magre come l'attuale.
Qualcosa si muove anche a livello più profondo. L'investimento nella cultura è il più importante. L'arretratezza italiana nelle competenze digitali, registrata dall'indice Desi della Commissione europea, è un freno su tutta la linea. Ma qualche risposta c'è: l'infrastruttura di acceleratori della Cdp, le iniziative educative delle imprese, il rilancio degli Istituti Tecnici Superiori, la moltiplicazione dei dottorati di ricerca per l'intelligenza artificiale.
Intanto le esperienze di open innovation cominciano a coinvolgere non solo aziende grandi e startup, ma anche piccole imprese e università, clienti e fornitori, persino competitori. La capacità italiana di far nascere imprese è fuori discussione, ma la storia delle start up è appena cominciata. Un'apertura alle esperienze internazionali, nel management, nei modelli di business, nell'orientamento alla crescita moltiplica le opportunità.
L'immaginazione, la visione di lunga durata, la qualità del rapporto con i clienti, restano i punti di forza per la creazione di valore per le imprese italiane. L'insieme di questi aspetti può rivelarsi generativo. Soprattutto adesso che il sistema dell'innovazione a livello globale è sottoposto a sollecitazioni fondamentali. La catena del valore dell'elettronica, per esempio, è in piena trasformazione: la sua complessità e fragilità si sono dimostrate nel corso della crisi pandemica e successivamente, con una incredibile difficoltà a gestire la scarsità di offerta di microprocessori prima e la scarsità di domanda poi, mentre la concentrazione dei produttori di chip, macchine per fabbricarli, materie prime strategiche si è rivelata insostenibile nel nuovo quadro geopolitico.
Ma intanto si assiste a qualcosa di ancora più profondo. I problemi che l'ecosistema dell'innovazione deve affrontare non sono più definiti dalle imprese innovative stesse. Fino a qualche anno fa, si poteva ritenere che la nuova tecnologia sarebbe stata migliore della precedente e che questo sarebbe bastato a dire che l'innovazione contribuiva a migliorare il mondo. Ma oggi il problema è ben più ampio, esogeno, decisivo: oggi l'innovazione deve rispondere al problema del cambiamento climatico, altrimenti è meno che utile.
Il che comporta una forma di collaborazione più profonda, più sostanziale. Chesbrough suggerisce che la nuova versione dell'”open innovation” non si deve limitare a generare nuove conoscenze sulle soluzioni possibili ma deve essere arricchita dalla capacità del sistema di disseminare quelle conoscenze e di assorbirle. Ne scrive nel suo nuovo libro “Open innovation results” (2020, tradotto in italiano l'anno successivo).
Insomma, se il centro del valore nell'ecosistema dell'innovazione è la conoscenza, non basta che sia generata, occorre anche che sia condivisa e compresa fino in fondo perché possa produrre risultati. E quei risultati saranno positivi in relazione a paradigmi valutativi che mutano nel tempo. Oggi, insomma, la teoria e la pratica dell'innovazione stanno compiendo un salto di paradigma.
Il fondatore di Facebook ha sostenuto che nell'innovazione vale questa regola: «Muoviti in fretta e rompi le cose. Se non rompi le cose non ti stai muovendo abbastanza in fretta». Sembra un approccio vecchio e superato. Oggi, le società non vogliono un'innovazione che rompa le cose. Vogliono soluzioni a problemi giganteschi, veri, dalla cui soluzione dipende il futuro dell'umanità. Vogliono ecosistemi dell'innovazione capaci di pensare alle conseguenze di quello che generano. Gli europei, e forse anche gli italiani, non sono poi messi male in questo nuovo contesto.
Luca De Biase
Editorialista
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