di Ilaria Vesentini
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In epoca di agricoltura sostenibile e di irruzione dei criteri Esg (impatto su ambiente, società, gestione) in ogni attività aziendale, ha ancora senso investire in biologico? E che spazi restano per le certificazioni bio sui mercati, dove da un lato consumatori sempre più esigenti non si accontentano di prodotti e processi naturali (chimica e Ogm free), se mancano il rispetto delle persone e dell’etica, e - dall’altro lato – ci sono 8 miliardi di persone da sfamare (di cui una su nove è sottonutrita) a prezzi accessibili? Domande che il pioniere e il leader del biologico in Italia, AlceNero, si sta ponendo da tempo. «Penso che produrre bio continui ad avere senso, per quanto il concetto di biologico sia stato molto annacquato dall’esplosione della sostenibilità, principio più ampio e totalizzante che però oggi si traduce più in chiacchiere che in cose praticate. Il biologico è stato negli anni inflazionato e banalizzato, ma resta il modello di produzione e consumo più sostenibile ci sia al mondo, ha solo bisogno di arricchirsi di nuovi valori», afferma Massimo Monti, ad di Alce Nero, che dal quartier generale bolognese (a Castel San Pietro) riunisce più di mille agricoltori in Italia e dal 1978 a oggi si è affermato come il marchio più noto in Italia con oltre 300 referenze distribuite in 53 Paesi.
Gli effetti di pandemia e guerra, tra aumento dei costi nell’agroindustria e dell’inflazione nel carrello della spesa si stanno facendo sentire: il bilancio 2022 di Alce Nero chiuderà in calo di 5-6 punti rispetto ai 71 milioni di euro fatturati l’anno prima. «Abbiamo scelto di cancellare tutte le promozioni e gli sconti, non potendo riversare i rincari sui clienti, e di ridurre all’osso le spese in marketing, ma abbiamo preferito salvaguardare la redditività, che è storicamente bassa per riuscire a chiudere un bilancio non negativo. Non siamo ottimisti neppure per il 2023, ma questo non significa mettere in discussione la scelta bio» rimarca l’ad.
I produttori biologici hanno peccato di presunzione, ammette il manager bolognese, nella convinzione di non aver bisogno di bilanci di sostenibilità (Alce Nero ha pubblicato il primo report solo nel 2022) né di altre etichette etiche in quanto attenti alla natura e alle comunità locali per Dna. Ma a sua volta il mercato pecca di ignoranza, perché c’è un tasso altissimo di innovazione e tecnologia tra chi produce biologico, che è meno elitario di quanto si pensi. «Soprattutto sui prodotti freschi è difficile avere prezzi allineati ai prodotti convenzionali, ma per i secchi le private label bio costano spesso meno dei leader di mercato convenzionali. Il problema vero è che oggi il cibo costa troppo poco: non siamo noi che costiamo troppo, è che per mangiare si spende poco, molto meno di 20-30 anni fa, perché nessuno è disposto a pagare il prezzo di una filiera davvero sostenibile», sostiene Monti. Un pollo allevato in modo sostenibile, pagando dignitosamente i lavoratori, senza inquinare, con imballo sostenibile raddoppia il prezzo finale: in quanti sono disposti a comprarlo? Bio o non bio l’unica strada per salvare il pianeta è avere cura della salute tanto dell’uomo quanto del pianeta, come proclamavano i padri del biologico 100 anni fa.
«Noi rappresentiamo oggi il modello più sostenibile che ci sia in agricoltura – assicura l’ad – e va sfatata l’idea che essere biologici significhi produrre con zappa e aratro, il contrario. Noi siamo la punta di diamante della pratica agricola in Italia. La dimensione agricola media di una azienda bio è superiore ai 40 ettari, contro i 7-8 ettari medi, il numero di imprenditori laureati è nel bio quattro volte il dato dell'agricoltura convenzionale, l’età media è di 40 anni contro 65 anni. Produrre bio vuol dire avere molti meno strumenti per rimediare alle bizze o agli errori di natura e quindi adottare tecniche più sofisticate e competenze più elevate». Le rese sono minori e il cibo bio non basta per sfamare tutti? «Se non si pompa la terra le rese sono inevitabilmente di un 15-20% in meno – conclude Monti – ma il nostro è un modello sostenibile per il pianeta, non lo è quello di una agricoltura che sfrutta la terra fino a impoverirla e di una società che butta il 30% di ciò che consuma».
Ilaria Vesentini
corrispondente Emilia-Romagna
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