di Antonio Tomassini
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Mentre in Italia ci interroghiamo su meri (deludenti) riordini del sistema tributario, delega compresa, la comunità internazionale prova a impostare la “rivoluzione del fisco”, spostando la tassazione verso i Paesi dove vengono realizzati i ricavi. Ocse e Unione europea prendono atto che la digitalizzazione dell’economia ha reciso il nesso tra impresa e territorio e che la fiscalità internazionale deve adeguarsi all’evidenza che l’economia digitale è l’economia tutta.
L’architettura riformatrice è assisa sui cosiddetti “Pillar 1 e 2” e compendiata nell’accordo raggiunto l’8 ottobre del 2021 da 137 Paesi (sui 141 aderenti all’Inclusive framework on base erosion and profit shifting di Ocse e G20), rappresentativi del 94% del Pil mondiale, che ha già gemmato un documento in consultazione pubblica sul sito dell’Ocse fino al 18 febbraio sul Pillar 1, delle linee guida sul Pillar 2 da parte della stessa organizzazione (lo scorso 20 dicembre) e una proposta di direttiva della commissione europea sempre sul Pillar 2 (il 22 dicembre).
La tempistica è ambiziosa, perché ci si propone di attuare la riforma entro il 2023, anno entro il quale dovranno abbandonarsi le digital tax locali, non idonee a garantire che le multinazionali paghino, in modo “congruo e pro quota”, le imposte nei Paesi dove realizzano ricavi. Guardando all’Italia, l’imposta sui servizi digitali (dal gettito di poco più di 200 milioni) ingenera temi di illegittimità rispetto ai trattati e alla Costituzione e la previsione di un credito di imposta post implementazione del Pillar 1 è problematica, tanto da consigliare un più repentino passo indietro da parte del legislatore nazionale.
Il Pillar 1, con un approccio unificato che si fonda sugli Amount A e B destinato a gruppi con più di 20 miliardi di fatturato, mira ad assicurare che uno Stato possa assoggettare a tassazione imprese non residenti indipendentemente dal fatto che abbiano un collegamento fisico con quest’ultimo. L’Amount A fa infatti riferimento alla presenza digitale significativa. Le aziende interessate, con una redditività superiore al 10% del fatturato, dovranno riallocare il 25% del profitto in eccesso ai Paesi dove vengono realizzati ricavi.
Principi Ifrs, regole di transfer pricing e compliance guideranno il processo. L’Amount B è volto a individuare una remunerazione fissa per attività di distribuzione e marketing. Restano escluse le industrie estrattive e il mondo finanziario. Occorrerà gestire la doppia imposizione con una convenzione ad hoc, “fuori” dai trattati, da innestare sul complesso bilanciamento delle potestà impositive dei singoli Stati.
Il Pillar 2, per arginare arbitraggi, prevede l’applicazione di una minimum tax effettiva del 15% per aziende con più di 750 milioni di fatturato. Si tratta delle Global anti-base erosion rules (Globe) con due meccanismi interconnessi, (i) una Income inclusion rule (Iir), che impone una top-up tax sulla casa madre in relazione a profitti scarsamente tassati e, (ii) a supporto della Iir, se la top-up tax non trova applicazione, una Undertaxed payment rule (Utpr), che limita deduzioni e prevede aggiustamenti. Inoltre, viene previsto uno strumento pattizio Subject to tax rule (Sttr) di tassazione alla fonte su flussi tassati con aliquota inferiore al 9 per cento.
L’Ocse il 20 dicembre scorso ha diramato delle linee guida sul Pillar 2, che constano di 10 capitoli, seguite il 22 dicembre da una proposta di direttiva che la Commissione vuole finalizzare a metà 2022 con normative di recepimento degli Stati membri da adottare ad inizio 2023, al fine che questi si adeguino in modo coordinato e solerte ai nuovi principi. La proposta di direttiva chiarisce che le regole Cfc (Controlled foreign companies), che consentono di tassare in un Paese redditi allocati in giurisdizioni a bassa fiscalità, si applicano in via prioritaria rispetto al Pillar 2. La tematica dell’interazione tra Cfc e Globe ricalca quella della compatibilità di queste ultime con il Gilti statunitense (il Global intangible low-taxed income volto a intercettare il reddito da asset immateriali scarsamente tassato e diverso sia come rate – 10,5% contro il 15% – che come base di calcolo). L’adesione degli Stati Uniti a questo progetto è la ragione prima del suo successo e quindi occorrerà monitorare questi equilibri.
La strada è tracciata, percorrerla è complesso e sarà bene che il nostro Paese sia coinvolto quanto più possibile, del resto negli ultimi tempi sembra più facile il successo internazionale che quello di casa nostra.
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