di Elena Comelli
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L’azoto è uno degli elementi più abbondanti in natura, costituisce il 78% dell’aria che respiriamo, ma non è nella forma di cui hanno bisogno le piante per crescere. La ricerca di forme alternative di azoto, pronto per essere assorbito dalle piante, è essenziale per aumentare la fertilità del suolo e nutrire l’umanità avviata verso quota 10 miliardi. La domanda di azoto era così incalzante nel 19° secolo che furono combattute due guerre per il controllo di alcune isole del Sud America rinomate per l’abbondante presenza di guano.
Poi è arrivato il processo Haber-Bosch e ha appagato la fame di azoto del mondo, facendo lievitare i raccolti con un processo industriale basato sugli idrocarburi. Da allora coltivare i campi è diventato più facile e i combustibili fossili hanno nutrito l’umanità. Senza i due chimici tedeschi, si stima che quasi 4 miliardi di noi non sarebbero al mondo.
Oltre un secolo dopo, però, il nodo dei fertilizzanti sintetici sta venendo al pettine: da un lato generano il 2,5% delle emissioni globali di gas serra (più dei trasporti aerei) e dall’altro lato se ne spreca metà, che invece di restare sui campi finisce a inquinare le acque, causando fioriture di alghe e gigantesche zone morte nei mari del mondo. In più, rendono gli agricoltori dipendenti da giganti petroliferi come UralChem o EuroChem e da petro-Stati come la Russia. Per continuare a nutrire il mondo in maniera affidabile senza mandarlo arrosto ci vorrebbe un’altra coppia di scienziati in grado di trovare il Sacro Graal dell’agricoltura e dare alle piante alimentari la capacità di autofertilizzarsi.
C’è chi ci prova da decenni, ma per ora non ci siamo ancora arrivati. Gli unici organismi naturali capaci di rendere l’azoto appetibile per piante e animali sono alcuni tipi di microbi, noti come diazotrofi, che utilizzano l’azoto molecolare presente nell’aria (N2) per produrre ammoniaca (NH3), molto meglio del processo Haber-Bosch e senza alcun bisogno di idrocarburi. I recenti sviluppi nel campo della biotecnologia, inimmaginabili ai tempi di Fritz Haber e Carl Bosch, suggeriscono la possibilità di estrarre i meccanismi utilizzati da questi batteri per fissare l’azoto e inserirli all’interno delle piante. In questo modo, un giorno potremmo avere piante in grado di fertilizzarsi da sole.
I pionieri di questa ricerca sono due scienziati britannici, Ray Dixon e John Postgate (nel frattempo scomparso), che nel 1972 pubblicarono un articolo su Nature in cui riportavano di aver indotto l’E. coli, una specie batterica che normalmente non fissa l’azoto, a farlo, importando i geni di un’altra specie batterica. Allora sembrava imminente un rapido progresso verso le piante, ma in realtà gli strumenti biotecnologici per il grande salto dai batteri al mondo vegetale sono stati sviluppati solo nell’ultimo decennio. Oltre a Dixon, oggi ci stanno lavorando in tanti, a partire da Luis Rubio, direttore del Centro di biotecnologia delle piante del Politecnico di Madrid, finanziato anche dalla Gates Foundation. Rubio sta cercando, insieme ai suo team, di far funzionare la nitrogenasi fuori dalla sua sede batterica, il primo passo per inserirla nel genoma delle piante alimentari. L’idea è impiantare innanzitutto la nitrogenasi in un lievito, forse in un paio d’anni, poi nella pianta-cavia per eccellenza, il tabacco, e infine nel riso. Passare dal lievito alle colture alimentari vere e proprie potrebbe richiedere più di un decennio.
Nel frattempo, una strada alternativa è quella intrapresa da Pivot Bio, un unicorno in rapida crescita con sede a Berkeley, sostenuto da investitori verdi come Bill Gates e Al Gore, ma anche da colossi poco sentimentali come Bayer, Bunge e Continental Grain. La start up californiana è impegnata a potenziare i diazotrofi con l’ingegneria genetica, per spingerli a fissare in modo più efficiente l’azoto nel terreno coltivabile. Non è una rivoluzione così radicale come quella delle piante che si fertilizzano da sole, ma è già un bel passo avanti.
La prima generazione di diazotrofi ingegnerizzati è già sul mercato e gli agricoltori li comprano. I sostituti biologici dei fertilizzanti chimici di Pivot sono stati applicati lo scorso anno su più di due milioni di ettari di terreni agricoli americani, portando all’azienda oltre 100 milioni di dollari di entrate. Gli scienziati di Pivot sostengono che i loro batteri possono sostituire circa il 20% del fertilizzante di un campo di mais, senza ridurne i rendimenti. E considerando che la loro adozione è aumentata di oltre 15 volte in quattro anni di vendite, gli agricoltori sembrano soddisfatti. Per ottenere un impatto più ampio sul settore e intaccare in maniera significativa il dominio dei fertilizzanti sintetici, l’azienda californiana ha bisogno di estendere la sua formula a colture diverse e di esportarla in altri Paesi. Motivo per cui i due co-fondatori, Karsten Temme e Alvin Tamsir, entrambi usciti dall’università della California a Berkeley, si stanno applicando ad ampliare la loro gamma di prodotti. Il ruolo di Ceo, nel frattempo, è stato affidato a un veterano del settore agroalimentare, Chris Abbott di Continental Grain. Sarà difficile, però, che la loro battaglia si estenda anche all’Unione Europea, dove le coltivazioni Ogm sono bandite in oltre metà dei Paesi membri, compresa l’Italia, la Francia e la Germania.
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