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Apple e Google condannate: aiuti illegali e abuso di posizione dominante

di Alessandro Galimberti

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Apple e Google condannate: aiuti illegali e abuso di posizione dominante

Apple e Google condannate: aiuti illegali e abuso di posizione dominante

L’Irlanda incasserà 13 miliardi di tasse arretrate da Apple. Google dovrà pagare la multa da 2,4 miliardi per abuso di posizione dominante

10 settembre 2024
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8' di lettura

La Corte di giustizia Ue ha confermato la decisione della Commissione europea del 2016: l’Irlanda ha concesso alla Apple un aiuto illegale che tale Stato è tenuto a recuperare. Respinto inoltre il ricorso di Google e Alphabet contro la maxi multa per 2,4 miliardi di euro inflitta dalla Commissione Ue al gruppo di Mountain View.

La vicenda Apple

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Bruxelles nel 2016 aveva ha deciso che alcune società appartenenti al gruppo Apple avevano beneficiato, dal 1991 al 2014, di vantaggi fiscali costitutivi di un aiuto di Stato concesso dall’Irlanda. Tale aiuto riguardava il trattamento fiscale degli utili generati da attività della Apple al di fuori degli Stati Uniti. Nel 2020 il Tribunale aveva annullato la decisione comunitaria ritenendo che quest’ultima non avesse sufficientemente dimostrato l’esistenza di un vantaggio selettivo a favore di tali società. Nel pronunciarsi sull’impugnazione, la Corte annulla la sentenza del Tribunale e statuisce definitivamente sulla controversia, confermando al contrario la decisione della Commissione.

Nel 1991 e nel 2007 l’Irlanda ha emesso due cosiddetti «ruling fiscali» preventivi a favore di due società del gruppo Apple - Apple Sales International (Asi) e Apple Operations Europe (Aoe) -, che erano costituite come società di diritto irlandese, ma non erano residenti fiscalmente in Irlanda. Tali ruling fiscali approvavano i metodi utilizzati dalle due società per determinare i loro utili imponibili in Irlanda, afferenti alle attività commerciali delle loro rispettive succursali irlandesi.

I ruling fiscali

Dal 1991 al 2014 Apple Inc., da un lato, e le due branch irlandesi all’altro, erano vincolate da un accordo di ripartizione dei costi relativi a ricerca e sviluppo delle tecnologie incorporate nei prodotti del gruppo Apple. In forza di tale accordo, da un lato, le parti avevano accettato di ripartire i costi e i rischi collegati all’R&S dei beni immateriali, dall’altro avevano convenuto che Apple Inc. rimanesse proprietaria dei beni immateriali a costi ripartiti, compresi i diritti di proprietà intellettuale. Inoltre, Apple Inc. aveva concesso alle branch Asi e Aoe una licenza senza royalties, che consentiva loro di produrre e di vendere i prodotti Apple nel territorio che era stato loro assegnato, vale a dire il mondo escluso il continente americano. Secondo la Commissione Europea i metodi di attribuzione degli utili alle società irlandesi del gruppo Apple (Asi e Aoe) si sarebbero per questo discostati da un risultato basato sull’applicazione del principio di libera concorrenza, che rappresenta uno dei principi cardine nell’ambito della disciplina del transfer pricing a livello internazionale. Nello specifico, i ruling fiscali contestati avrebbero determinato una riduzione della base imponibile di Asi e Aoe e quindi una riduzione dell’imposta sulle società dovuta dalle stesse in base al regime ordinario di tassazione degli utili societari in Irlanda, conferendo pertanto un vantaggio selettivo alle stesse società ai fini dell’articolo 107, paragrafo 1, del Tfue.

Nel 2016 la Commissione europea ha ritenuto che escludendo dalla base imponibile gli utili generati dall’utilizzo delle licenze di proprietà intellettuale detenute dall’Asi e dall’Ao, per il motivo che le sedi di tali società erano situate al di fuori dell’Irlanda e che la gestione di tali licenze dipendeva da decisioni adottate a livello del gruppo Apple negli Stati Uniti, i ruling fiscali avessero concesso a tali società, dal 1991 al 2014, un aiuto di Stato illegale e incompatibile con il mercato interno, di cui aveva beneficiato il gruppo Apple nel suo insieme. Essa ha quindi ordinato all’Irlanda di procedere al suo recupero. Secondo le stime effettuate dalla Commissione, l’Irlanda avrebbe concesso alla Apple vantaggi fiscali illegali per un totale di 13 miliardi di euro.

Azzerata per 24 anni la Corporate income tax

I ruling accordati dal fisco irlandese a Apple hanno quindi avvicinato allo zero per 24 esercizi consecutivi la tassazione sui redditi societari in un’amministrazione fiscale che peraltro da sempre è tra le più competitive dell’area unionale (e non solo). Secondo uno studio comparativo dell’Ocse, l’imposizione tributaria sulle società nell’isola che dall’inizio ha adottato l’euro è fissa al 12,5% dall’anno 2003, scesa di 11,5% dai tre anni precedenti (nel 2000 era al 24%, poi il 20 e nel 2002 il al 16%). Allo stesso livello di tassazione societaria dell’Irlanda nell’area dei 27 c’è anche Cipro (12,5%), ma ancor più competitiva è la Corporate tax in Bulgaria (10%) e ancor meglio in Ungheria (9% dal 2017, era il doppio nel 2000). A questa competizione “nominale” sulle aliquote, gli stati più aggressivi – Irlanda e Lussemburgo in testa – hanno affiancato fino all’inizio del decennio scorso una politica della tassazione “su misura”, accordando ruling preventivi di abbattimento dell’imponibile (prassi che oggi non è più consentita senza il preventivo avallo della Commissione).

L’annullamento della sentenza Apple da parte del Tribunale Ue

Nel 2020, investito di ricorsi proposti dall’Irlanda nonché dalle due società il Tribunale Ue ha annullato la decisione della Commissione, ritenendo che quest’ultima non fosse riuscita a dimostrare l’esistenza di un vantaggio selettivo derivante dall’adozione dei ruling fiscali in questione e comportante una riduzione preferenziale della base imponibile in Irlanda. Con la sua sentenza, la Corte, investita di un’impugnazione proposta dalla Commissione, annulla la sentenza del Tribunale. Secondo la Corte, il Tribunale è incorso in errori quando ha dichiarato che la Commissione non aveva sufficientemente provato che le licenze di proprietà intellettuale detenute dall’Asi e dall’Aoe e i relativi utili, generati dalle vendite dei prodotti Apple al di fuori degli Stati Uniti, avrebbero dovuto essere attribuiti, a fini fiscali, alle succursali irlandesi. In particolare, erroneamente il Tribunale, da un lato, ha dichiarato che il ragionamento in via principale della Commissione era fondato su valutazioni errate quanto alla tassazione normale in forza del diritto tributario irlandese applicabile nel caso di specie e, dall’altro, ha accolto le censure dedotte dall’Irlanda nonché dall’Asi e dall’Aoe contro le valutazioni fattuali operate dalla Commissione riguardo alle attività delle succursali irlandesi delle due società ed alle attività al di fuori di dette succursali.

La condanna definitiva: aiuto di stato da recuperare

Dopo aver annullato la sentenza impugnata, la Corte ritiene che lo stato degli atti consenta di statuire sui ricorsi e che occorra statuire definitivamente su questi ultimi nei limiti della controversia che rimane pendente dinanzi ad essa. In tale contesto, la Corte conferma in particolare l’approccio della Commissione secondo il quale, in forza della disposizione pertinente del diritto irlandese relativa al calcolo della tassazione delle società non residenti, le attività delle succursali dell’Asi e dell’Aoe in Irlanda dovevano essere confrontate non con attività di altre società del gruppo Apple, ad esempio una società madre negli Stati Uniti, bensì proprio con quelle di altre entità di tali società, in particolare con quelle delle loro sedi situate al di fuori dell’Irlanda.

L’aiuto fiscale illegale dovrà essere recuperato dallo Stato.

La risposta di Apple

«Questo caso non ha mai riguardato la quantità di tasse che paghiamo, ma il governo a cui siamo tenuti a pagarle. Paghiamo sempre tutte le tasse che dobbiamo ovunque operiamo e non c’è mai stato un accordo speciale. Apple è orgogliosa di essere un motore di crescita e innovazione in Europa e nel mondo e di essere sempre uno dei maggiori contribuenti al mondo. La Commissione europea sta cercando di cambiare retroattivamente le regole, ignorando che, come previsto dal diritto tributario internazionale, il nostro reddito era già soggetto a imposte negli Stati Uniti. Siamo delusi dalla decisione odierna, poiché in precedenza la Corte di Giustizia aveva riesaminato i fatti e annullato categoricamente il caso», così Apple in una nota ufficiale.

Gli altri ruling fiscali salvati dai cavilli

Tra il 2022 e 2023 il Lussemburgo è uscito per tre volte vincitore nel contenzioso con la Commissione sui ruling concessi a Fiat Chrysler, ad Amazon (250 milioni di tasse ) e nelle more alla società di energia Engie. l giudici della Corte – che peraltro ha sede proprio nel Lussemburgo – hanno ripetutamente contestato il metodo e i criteri adottati dalla Commissione per bollare gli accordi di abbassamento/azzeramento delle aliquote: l’esecutivo Ue ha infatti battuto disordinatamente i sentieri della concorrenza e quelli del fisco per contestare l’aiuto illegittimo di stato e costringere le multinazionali a pagare i tributi. Percorso sbagliato, disse la Cgue nel caso Fiat Chrysler, perché per contestare l’alterazione delle regole di mercato mediante la leva fiscale, l’Antitrust deve dimostrare che il Lussemburgo adotta misure in contrasto con la «sua propria legislazione fiscale» e non invece in conflitto con un immaginario (e inesistente allo stato) diritto unionale armonizzato. Meno che mai può essere invocato un principio etico nei luoghi (i tribunali) dove si applicano norme di diritto positivo, cioè scritto, conoscibile e conosciuto.

La vicenda Google

La Corte di Giustizia dell’Ue ha inoltre respinto il ricorso di Google e Alphabet contro la maxi multa per 2,4 miliardi di euro inflitta dalla Commissione Ue al gruppo di Mountain View. L’esecutivo comunitario aveva constatato nel 2017 che Google ha abusato della sua posizione dominante nello Spazio economico europeo nel comparto delle ricerche generiche su Internet, favorendo il proprio comparatore di prodotti, rispetto a quelli dei comparatori di prodotti concorrenti. Il Tribunale aveva già respinto il ricorso della società nel novembre 2021.

Nel 2017 la Commissione aveva inflitto un’ammenda di circa 2,4 miliardi di euro a Google per aver abusato della sua posizione dominante su vari mercati nazionali della ricerca su Internet favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti rispetto a quello dei suoi concorrenti. Poiché il Tribunale ha, in sostanza, confermato tale decisione e mantenuto l’ammenda di cui sopra, Google e Alphabet hanno proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, che è stata respinta da quest’ultima confermando così la sentenza del Tribunale.

Nel giugno di otto anni fa l’Antitrust europeo aveva constatato che, in tredici paesi dello Spazio economico europeo, Google aveva privilegiato, sulla sua pagina di risultati di ricerca generale, i risultati del proprio comparatore di prodotti rispetto a quelli dei comparatori di prodotti concorrenti. Google aveva infatti presentato i risultati di ricerca del suo comparatore di prodotti in prima posizione e li aveva valorizzati all’interno di «box», accompagnandoli con informazioni visive e testuali attraenti. Per contro, i risultati di ricerca dei comparatori di prodotti concorrenti apparivano soltanto come semplici risultati generici (presentati sotto forma di link blu) ed erano, per tale motivo, contrariamente ai risultati del comparatore di prodotti di Google, suscettibili di essere retrocessi da algoritmi di aggiustamento nelle pagine di risultati generali di Google.

La Commissione concluse che Google aveva abusato della propria posizione dominante sul mercato dei servizi di ricerca generale su Internet nonché su quello dei servizi di ricerca specializzata di prodotti e le ha inflitto un’ammenda di 2.424.495.000 di euro, per il pagamento della quale Alphabet, in quanto socia unica di Google, è stata ritenuta responsabile in solido per un importo di 523,518 mila euro.

Google e Alphabet hanno contestato la decisione comunitaria dinanzi al Tribunale dell’Unione europea, che nel novembre 2021 ha respinto il ricorso e, in particolare, confermato l’ammenda. Per contro, il Tribunale ha ritenuto che non fosse dimostrato che la pratica di Google avesse avuto effetti anticoncorrenziali, anche solo potenziali, sul mercato della ricerca generale. Di conseguenza, ha annullato la decisione della Commissione nella parte in cui tale istituzione aveva constatato una violazione del divieto di abuso di posizione dominante anche per quanto riguarda quest’ultimo mercato.

Google e Alphabet hanno allora proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, mediante la quale esse chiedono l’annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui ha respinto il loro ricorso, nonché l’annullamento della decisione della Commissione. Oggi il rigetto della Corte con la conferma della sentenza del Tribunale.

La risposta di Google

«Siamo delusi dalla decisione della Corte. Questa sentenza si riferisce a un insieme di fatti molto specifico. Abbiamo apportato modifiche nel 2017 per conformarci alla decisione della Commissione Europea e il nostro approccio ha funzionato con successo per oltre sette anni, generando miliardi di clic per oltre 800 servizi di comparazione prezzi», ha detto un portavoce di Google.

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