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Alexander McQueen, l’addio di Sarah Burton è sublime. Il lusso quieto secondo Hermès

di Angelo Flaccavento

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Alexander McQueen PE 2024

Alexander McQueen PE 2024

Continua a sorprendere Rei Kawakubo, convince il debutto di Stefano Gallici da Ann Demeleumesteer, l’arrivo di Louise Trotter da Carven punta su pragmatismo e semplicità

2 ottobre 2023
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3' di lettura

Il cubismo fu essenzialmente un modo di guardare le cose, rifiutando la prospettiva classica: al punto di fuga unico se ne sostituirono molteplici, che portarono alla scomposizione del mondo osservato e alla moltiplicazione delle direttrici attraverso le quali riprodurlo. Interpretare il lavoro dei designer giapponesi non è mai un processo lineare, ma in apertura della quinta giornata di sfilate parigine, lo show di Junya Watanabe si presenta come uno scardinamento cubista dell’idea di vestito: prismatizzato, scomposto e ricomposto fino a diventare oggetto, con una vita possibile anche se non indossato. In passerella, dentro un antro sgarrupato come di prassi, perché a quest’altezza dello spettro modaiolo il pauperismo scabro è d’obbligo, si succedono abiti che paiono origami giganti, con aculei che protrudono e allontano, linee che si intersecano sghembe occupando spazio intorno al corpo. Non di astrazione pura si tratta: se l’apertura in nero è decisamente lontana da qualsivoglia idea di indossabilità, man mano che si procede le forme diventano progressivamente possibili, finendo con giubbotto di pelle da motard e la giacca bouclé da sciura. Si apprezza il lavoro modellistico, ma Watanabe pare impigliato in una formula, in uno schema certo eccitante, ma pur sempre rigido.

Lo stesso vale per Noir: qui Kei Nonomiya fa ogni volta la stessa cosa, ossia crea abiti scultorei con una torsione punk ben evidente, in una rigorosa palette di bianco e nero con scintillare di chincaglieria metallica in abbondanza. La ripetizione è di certo una scelta espressiva, ma ultimamente distinguere una collezione di Noir dalla precedente risulta difficile, ed è un peccato. Rei Kawakubo, imperitura madrina dell’avant-garde e imperatrice di Comme des Garçons è, di tutti i designer nipponici, la più prolifica e longeva. Ben più che settantenne, continua a sorprendere. Certo, anche lei si è da tempo incastrata sulle silhouette bulbose e su una idea di non vestito, ma i colori fluorescenti e i sentori ottimisti di questa collezione, accompagnati da cori ululanti, sono una scarica adrenalinica.

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Se si escludono i giapponesi, questa non è certo stagione di eccitanti sperimentazioni. Anzi, a imperare a Parigi, forse più che a Milano, è una rassicurante normalità, ma anche una normatività che impensierisce. Tutto è semplice, quindi comprensibile e commerciabile, ma anche immemorabile. Da Hermès, Nadège Vanhee-Cybulski fluidifica, alleggerisce, allunga, il che è un bene, anche se la collezione, composta essenzialmente da spolverini morbidi, gonne lunghe, abiti fascianti e piccoli top, risulta alquanto ripetitiva: l’esplorazione, in buona sostanza, di una cartella colore che gira intorno al rosso e ai bruciati. Tutto perfetto, tutto altamente inoffensivo, come s’addice al clima corrente di lussuosa quiescenza.

Il debutto di Louise Trotter al timone di Carven è all’insegna di pragmatismo e semplicità: tacchi bassi, colori neutri e il fermo desiderio di passare inosservate in mezzo alla folla, perché l’eleganza è un fatto personale, non una medaglia da ostentare. Certo, gli echi di certo minimal anni Novanta, Jil Sander in particolare, sono evidenti in certe torsioni, nell’uso equilibrato delle decorazioni, ma il risultato è moderatamente personale.

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Alexander McQueen PE 2024

Si conclude con una standing ovation sulle note appassionanti di Heroes di David Bowie (We can be heroes, just for one day!) il percorso di Sarah Burton da Alexander McQueen: tredici anni al fianco di Lee McQueen, e tredici al timone creativo. La prova è ricapitolativa di un linguaggio nel quale il tailoring tagliente, il flou languido e il costante e sapiente ridisegno del corpo si uniscono in una celebrazione di bellezza e forza femminile. A Burton è sempre mancato, forse, il guizzo imprevedibile di Lee, largamente compensato, però, da una sapienza, e da un sentimento per il fare unici. La fine del suo mandato chiude ufficialmente un’era, su una nota alta e ineffabile.

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Ann Demeulemeester (Photo by JULIEN DE ROSA / AFP)

Da Ann Demeulemeester, invece, inizia un nuovo corso sotto la direzione creativa del giovanissimo Stefano Gallici. L’estetica creata da Ann è un codice così preciso e volatile che romperlo diventa difficilissimo. Gallici agisce con morbidezza, puntando su androginia e indefinitezza, e su un certo barbarismo di strati che è visivamente appassionante. È un avvio promettente, con un unico freno: un sentire, ancora, troppo legato all’archivio, che andrebbe invece presto dimenticato per volare alto.

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