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Scatta la truffa aggravata per il dipendente pubblico che lascia il lavoro per la pausa caffè e, a volte, anche per fare un salto a casa per pranzo, senza timbrare il badge. Se nel 2021 la Cassazione aveva “chiuso un occhio” sulla pausa caffè, dimostrando una certa tolleranza (sentenza 29674/2021) per la “prassi” seguita in ufficio, applicando la norma sulla particolare tenuità del fatto, questa volta non usa lo stesso metro con il direttore di un mercato comunale che rivendicava il diritto ad un pasto a domicilio. La Suprema corte, con la sentenza 33015/2024, conferma il reato, che è comunque prescritto, commesso dal direttore di un mercato ortofrutticolo all'ingrosso, per aver ingannato la pubblica amministrazione in merito alla effettiva durata della sua prestazione lavorativa. Un tempo dal quale andavano sottratte le sortite al bar per il caffè e “gli accessi all'abitazione” per il pranzo. In più l'imputato era stato addirittura accusato di recarsi all'estero mentre era in servizio. Circostanze minimizzate dalla difesa. Le puntate al bar, duravano il tempo di un espresso, il pranzetto a casa durava poco perchè abitava vicino all'ufficio, quanto all'aver espatriato, il confine con la Slovenia era ad un passo e poteva essere stato superato a piedi, addirittura senza accorgersene, perché la sua città era Trieste.
L'imputato si lamenta inoltre perché la Corte d'Appello, nel condannarlo, non aveva tenuto presente che “la condotta contestata non soltanto costituisce prassi invalsa, ma addirittura rappresenta per il lavoratore un vero e proprio diritto contrattuale, consentendo il Contratto collettivo nazionale di lavoro “brevi refezioni ai dipendenti””. Non la vede proprio così la Cassazione. Gli ermellini precisano che, come risultava dalle intercettazioni e dalle testimonianze, il direttore andava al bar e, con uscite non brevi, andava a nutrirsi a casa, senza timbrare il cartellino e usando anche la macchina di servizio. La Suprema corte ricorda che alterare i dati sulla presenza comporta la truffa aggravata, per la retribuzione percepita in assenza di una prestazione lavorativa, anche quando si tratta di poche centinaia di euro. Nello specifico il danno, quantificato dalla Corte dei conti in 900 euro, era stato considerato apprezzabile.
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