di Angelo Flaccavento
A sinistra un abito della collezione Chanel, mentre a destra un abito della collezione Miu Miu
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La moda – quella dei designer, quella delle sfilate – cerca periodicamente di avvicinarsi alla vita, di non servire solo inarrivabili fantasie che scatenano, per emulazione dell’impossibile, famelici desideri d’acquisto. L’esperimento il più delle volte fallisce, miseramente. Il fatto è che il cinéma vérité, in passerella, risulta essere una messa in scena più stucchevole di un quadro di kabuki. Tanto vale allora teatralizzarla, la vita; fantasticarlo, il reale.
In chiusura della estenuante settimana parigina della moda, segnata in linea di massima da un pragmatico bisogno di tornare ad abiti adatti all’esistenza di ogni giorno, è Miuccia Prada, con Miu Miu (foto in alto a destra), a ridefinire il perimetro del verismo in formato moda. Lo fa con il suo punto di vista, quindi distorcendo tutto come solo si conviene agli autori, convinta che vestire la vita non sia scimmiottarla malamente e a caro prezzo, ma creare pezzi desiderabili, che poi entreranno nella quotidianità di ciascuno in modi diversi. Quindi una minigonna inguinale è reale, e così un opera coat di broccato pensato come passepartout giornaliero. Basta volerlo. Basta usare l’abbigliamento come una lingua e come una prospettiva. La sfilata si apre con un tuono fragoroso, parte del paesaggio di video-rovine creato dall’artista qatariota-americana Sophia Al-Maria che funge da set. Sarà una fantasticheria indotta da questa introduzione sonora, ma gli individui che si succedono in passerella, molti in shorts o costumi da bagno mescolati a giacche e abiti da città, i capelli mezzi, lo sguardo velato da occhiali impiegatizi, sembrano scampati ad un fragoroso scroscio di pioggia che ha bagnato le valigie dalle quali provengono, acciaccatelli, gli abiti che indossano, ereditati da parenti ed estranei, passati da una generazione all’altra per trovare nuova vita. È in questa idea di circolarità, che scardina protocolli e funzioni e riconfigura il noto, che sta la forza vitale della moda intesa come vestirsi. Gli abiti sono pelle esterna e offrono la possibilità di essere ogni volta diversi. Il repertorio delle forme è quello – giacche, camicie, gonne, abiti – ma le combinazioni sono virtualmente infinite. La passerella ne contiene una parte, il resto spetta a chi di Miu Miu si vestirà, e non ci potrebbe essere messaggio più energizzante.
La sfilata di Chanel (foto in alto a sinistra e qui sotto) si svolge dentro un cubo nero, aperto da larghe finestre che affacciano su una veduta marina - scorci di Costa Azzurra. Non è una scena astratta, ma una riproduzione sintetica di Villa Noailles, capolavoro modernista commissionata dai visconti Charles e Marie-Laure de Noailles all’architetto Robert Mallet-Stevens, nonché luogo caro a Karl Lagerfeld, e simbolo di vivere moderno. La collezione immaginata da Virginie Viard è ugualmente attraversata da un afflato modernista: veste una immaginaria festa in giardino. Le linee sono grafiche e scostate dal corpo, e hanno una facilità che fa pensare agli anni 60 yè-yè, mentre motivi e stampe si fanno optical. È chiara l’intenzione di alleggerire lo stile e proporre uno Chanel più svelto e dinamico, ma è come se il disegno non si realizzasse appieno, e il modernismo rimanesse sospeso a metà.
Chanel
Chiudono il programma le caotiche scomposizioni frattaliche di Kiko Kostadinov e le forme bulbose e imbottite di Duran Lantik, talento sicuro e spericolato che certo molto deve a Comme des Garçons, ma la cui maniera di vestire, svestire, ridisegnare il corpo è del tutto personale, verrebbe da dire pagana. La sua originalità sta proprio in questa convergenza di sperimentazione e sensualità. In una settimana di piattume, le follie di Lantik regalano speranza: c’è ancora chi crea per il gusto di farlo, chi provoca per progredire, chi inventa.
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