Calderoli: «Vi spiego dove prenderemo i fondi necessari per l’autonomia»
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«Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre partiranno ufficialmente le trattative con le quattro Regioni che hanno già chiesto l’assegnazione di materie non riferite ai livelli essenziali delle prestazioni. Ed entro la fine dell’anno vorrei portare in consiglio dei ministri i primi due o tre Lep su competenze importanti». Le turbolenze politiche che la circondano non fermano il viaggio dell’autonomia differenziata. E non sembrano far cambiare rotta al suo pilota: il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli, che in questa intervista con Il Sole 24 Ore accetta di confrontarsi a viso aperto su tutti i temi chiave che agitano il confronto sull’autonomia, a partire da quelli politici.
Ministro, l’attualità ci impone di partire dal referendum abrogativo. Che cosa ne pensa?
Sono 30 anni che mi dedico alla raccolta di firme per i referendum, quindi la mia valutazione sul coinvolgimento del popolo è sempre positiva. Le regole però devono valere per tutti: nel 2015 il referendum che avevo promosso per l’abrogazione di un articolo della legge Fornero aveva visto 650mila adesioni, ma fu poi dichiarato inammissibile perché toccava troppe materie e perché la riforma delle pensioni era collegata alla manovra. Anche l’autonomia è un collegato alla legge di bilancio per cui, fermo restando la potestà della Cassazione sulla decisione, tutta questa operazione mi pare più mediatica e politica che realmente referendaria. Tutti poi sanno che il quesito che chiede l’abolizione dell’intera legge è smaccatamente inammissibile, tanto è vero che le Regioni contrarie all’autonomia hanno scelto anche una strada diversa con un quesito parziale. Anche perché non va dimenticato che stiamo parlando di una legge, per così dire, costituzionalmente necessaria. Né si deve dimenticare che l’articolo 116, terzo comma, della Costituzione (quello che prevede l’autonomia differenziata, ndr), la lettera m) dell’articolo 117, primo comma (i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali) e il 119 (il “federalismo fiscale”, con la perequazione ordinaria e infrastrutturale) sono in vigore da 23 anni ma non sono ancora stati attuati.
Resta il fatto che 500mila firme raccolte in poche settimane non sembrano un segnale da poco.
Il punto è che questo governo si è rivelato il più sensibile sulla materia referendaria, attivando la piattaforma per le adesioni online che era prevista da anni ma non era mai partita. In quest’ottica forse andrebbero ripensate anche le soglie minime delle adesioni per avviare referendum o proposte di legge di iniziativa popolare. La riforma del regolamento del Senato di cui sono stato promotore nella scorsa legislatura prevede l’obbligo sostanziale di esaminare queste proposte, ma se raccogliere le firme è così facile si può arrivare perfino alla paralisi del Parlamento. Poi, siccome il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, i promotori dovranno richiedere a tutti i Comuni i certificati elettorali dei firmatari e farseli validare, e non è un’impresa facile.
Ma qualche mal di pancia percorre anche la maggioranza.
Guardi, fin qui ho visto qualche distinguo solo da parte di Forza Italia, ma delle dichiarazioni non mi interesso e preferisco guardare ai fatti. Ho chiesto l’autorizzazione alla premier Meloni, che me l’ha concessa, di avviare i colloqui con le Regioni che hanno avanzato le prime richieste, e ho tutto l’interesse ad accelerare anche per smontare il polverone politico. Proprio per questo ho chiesto ai proponenti di non indicarmi genericamente le materie su cui chiedono competenze aggiuntive, ma anche il dettaglio delle singole funzioni, così da far cadere subito polemiche pretestuose. Per esempio ho visto una certa agitazione intorno all’ordinamento delle professioni, ma tutte le richieste sono ovviamente concentrate sulle professioni non ordinistiche, non certo su commercialisti o avvocati. Una volta letti i testi delle richieste regionali, non ci sarà nessuna paura né nella popolazione né tanto meno fra gli alleati
di Governo.
Fin qui le proposte sono arrivate da Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria. Che cosa chiedono?
In prima battuta si lavora sulle materie non subordinate all’individuazione dei Lep, cioè Rapporti internazionali e con l’Ue delle Regioni, commercio con l’estero, professioni, protezione civile, previdenza complementare e integrativa, coordinamento della finanza pubblica, casse di risparmio a carattere regionale, enti di credito fondiario e organizzazione della giustizia di pace. Ma, ripeto, queste definizioni possono essere fuorvianti perché il punto sono le funzioni specifiche. Prima dell’avvio ufficiale del confronto, che dovrà avvenire una volta decorsi 60 giorni previsti dalla legge per le valutazioni dei Ministeri, non posso entrare nel dettaglio. Ma il Veneto ha chiesto funzioni che riguardano tutte le 9 materie, la Lombardia ne ha chieste 8 (non l’organizzazione della giustizia di pace), Piemonte e Lombardia 6. Il 27 luglio ho inviato a tutti i ministeri competenti e al Mef i documenti. Una volta trascorsi 60 giorni da quella data dobbiamo cominciare il confronto
con le Regioni.
Ma non c’è un problema di fondo nell’elenco di competenze trasferibili? Che cosa possono fare concretamente le Regioni su temi come il commercio con l’estero o le grandi reti di energia e trasporti?
Ma certo. Quando vedo nella legislazione concorrente alcune materie mi vien da pensare che qualche autore della riforma costituzionale del 2001 abbia alzato troppo il gomito. Nel 2005 ho provato a rimettere ordine con la devolution, che però è stata bocciata per referendum, poi altre grandi iniziative non le ho viste. Quel che si può fare ora, quindi, è utilizzare cum grano salis questo impianto costituzionale, per individuare le funzioni che possono essere svolte in concreto più efficacemente dalle Regioni che dallo Stato. Al contrario, per esempio la riforma del 2001 contempla la possibilità che le Regioni possano assumere competenza legislativa esclusiva sulle «norme generali sull’istruzione», ma è un’ipotesi che non sembra praticabile e quindi è difficile che possa essere presa in considerazione.
Non ci sarà mai, insomma, una “scuola lombarda” o una “scuola veneta”?
Ma no, nemmeno per sogno! Se però all’interno delle singole materie individuiamo con la cautela del buon padre di famiglia quello che può essere gestito meglio dalle Regioni, e spesso si tratta di funzioni amministrative tipo leggi Bassanini per intenderci, facciamo il bene del Paese, e chi paventa le cavallette o tutte le sette piaghe d’Egitto
sarà smentito.
Ma l’elefante nella stanza è rappresentato dai Lep e dai loro possibili costi. Non sono un’ipoteca sull’intera riforma?
Non riesco ad accettare che ci si sia resi conto solo ora che mancano i Lep, e che quindi non sono garantiti ovunque i diritti civili e sociali previsti dalla Costituzione. I divari territoriali non nascono dall’autonomia, che semmai li ha rimessi al centro del dibattito, e io mi sono preso la briga di tracciare per primo i confini delle materie che devono essere disciplinate dai livelli essenziali.
Non rischia di essere un “coraggio” troppo costoso?
I Lep prima di tutto possono modificare la distribuzione delle risorse, ma in modi diversi a seconda della funzione. In qualche caso la coperta si sposta a Sud, in altri a Nord, e bisognerà costruire proposte che la riportino per quanto possibile al centro. Servirà un margine in più? Può darsi, ma bisogna procedere per passi. Una quota non marginale di Lep, però, è soprattutto regolatoria, e può comportare qualche costo amministrativo che si sposta dallo Stato alla Regione. Va sottolineato in particolare che ai Lep dovranno essere abbinati costi e fabbisogni standard, un meccanismo inevitabile perché il diritto a certe prestazioni non si trasformi nel pretesto a sostenere una spesa senza limiti. Ne andrebbe degli equilibri di bilancio e, in termini più ampi, dei diritti delle generazioni future, che si troverebbero a dover sopportare l’eventuale debito contratto per sostenere quelle spese illimitate. Inoltre la determinazione di costi e fabbisogni standard destituisce di fondamento scientifico e pratico la tesi secondo cui i Lep aumentino necessariamente la spesa.
Resta però il problema dei Lep che invece andranno finanziati. Come?
Margini enormi possono arrivare da una spending review regionale che stani le inefficienze. Per esempio il Veneto ha 4,8 milioni di abitanti contro i 5,6 milioni della Campania, ma per il personale spende quasi la metà e per l’acquisto di beni e servizi, tra cui l’energia, circa un quinto. Sono differenze che vanno motivate, oppure eliminate. Non voglio togliere risorse al cittadino campano, voglio che quei soldi siano spesi meglio. Poi se occorreranno fondi aggiuntivi, non potremo metterli ovviamente tutti e subito, ma occorre partire e voglio rassicurare tutti: una base di partenza c’è già, e sta sotto il nostro naso. Ricordo infatti che la spesa pubblica, secondo i dati di Bankitalia del 2023, si aggira intorno ai 1.150 miliardi e che le prestazioni ai cittadini vengono già erogate. Il problema è proprio dato dal fatto che in alcuni casi vengono erogate male, qui è il nocciolo della questione e la sfida verso l’efficienza. In buona sostanza,
i soldi ci sono ma occorre spenderli bene, ma forse qualcuno teme di non essere all’altezza.
Ma il lavoro tecnico di definizione dei Lep è stato avviato? A che punto siamo?
Ci stiamo lavorando, eccome. Siamo molto avanti sull’ambiente, siamo a un buon livello sulla sicurezza del lavoro e abbiamo quasi ultimato l’analisi sul governo del territorio. Lo vedo quasi praticamente raggiunto. Per quel che riguarda la sanità, poi, con i Livelli essenziali di assistenza già definiti il grosso del lavoro è fatto.
Proprio i Lea, però, dimostrano che gli standard da soli non bastano a creare una sanità omogenea da Nord a Sud.
Il fatto è che oggi i Lea vengono utilizzati per le verifiche ex post, non in via preventiva per la distribuzione del fondo sanitario che avviene per la quasi totalità sulla base della popolazione corretta per l’età. Con la riforma invece saranno impiegati anche per il riparto, ma è evidente che la distribuzione delle risorse oggi destinate alle varie Regioni, frutto di un’intesa tra le Regioni stesse, non giustifica la migrazione sanitaria, che è dovuta all’inefficienza e nega a molti cittadini il diritto di farsi curare a casa propria. È bene ricordare, soprattutto a chi finge di non saperlo, che il riparto del fondo sanitario nazionale vede un valore medio pro capite di spesa sanitaria intorno ai 2.000 euro circa. Eppure, nonostante questo sostanziale equilibrio nella ripartizione, ci sono realtà più efficienti di altre. Detto questo, al di là del grosso problema delle liste d’attesa, la nostra sanità continua a essere migliore rispetto a quella di molti altri Paesi; ma, anche se il ministro Giorgetti mi maledirà, penso che per riportarla al top un punto di Pil in più (circa 20 miliardi, ndr) nel fondo sanitario dovremo mettercelo, progressivamente nel tempo.
Gianni Trovati
vicecaposervizio
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