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Il set fa show: Louis Vuitton sfila in cantiere, Stella McCartney nel mercatino sostenibile

di Angelo Flaccavento

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La sfilata Louis Vuitton (AFP)

La sfilata Louis Vuitton (AFP)

Zimmermann esprime uno spirito opulento da vacanza di lusso, Galliano produce una prova magistrale di glamour in tempo di carestia

3 ottobre 2023
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3' di lettura

La stagione parigina delle sfilate prosegue nel segno di un rassicurante, quanto noioso, rifiuto di ogni rischio. Se la moda delude, i contesti eccitano: sempre più la narrativa è affidata solo a set e regia, che è un po’ come gettare fumo negli occhi, fornendo a latere un implicito e lampante commentario a questi tempi di apparenza senza sostanza.

Lo show di Louis Vuitton si svolge nel ventre di un cantiere sugli Champs-Élysées. Una membrana di plastica arancione ricopre tutto: soffocante la sensazione di stare dentro un sacchetto dell’umido. La passerella invece, tutta bulloni, griglie di drenaggio e incastri, ha un che di industriale, e contrasta violentemente con la moda, che racconta di un Nicolas Ghesquière preso a esplorare, a sorpresa, una vaporosa morbidezza, senza rinunciare ai tagli netti, alla sensibilità grafica. Si apprezza questa sterzata lontano dall’estetica robotica a lungo associata a Vuitton: ora gli abiti danzano, i volumi si liquefanno. Certo, rimane evidente la tendenza a lambiccare ogni look come un sillogismo ermetico, congelando la vita in nome della precisione, ma traspare anche del sentimento, e una certa malinconia.

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Per sempre preda di un fervore eco che, all’interno di un gruppo del lusso, rischia di passare per adolescenziale, Stella McCartney ambienta lo show per strada, con sfondo di mercatino sostenibile popolato di fornitori eticamente ligi successivamente aperto a tutti, ma la narrativa scenica poco o nulla ci azzecca con i vestiti, che sono invece un riassunto vitale del suo modo immediato di fare moda, mescolando maschile e femminile, tailoring e leggerezza in una formula transgenerazionale e sempre più priva di barriere di genere. Basta questo: vestiti che vien voglia di indossare. Il resto è solo sovrastruttura e storytelling.

Da AZ Factory, il marchio creato dal compianto Alber Elbaz, lo schema delle collaborazioni una tantum porta ad un fortunato caso di auto-collaborazione: i designer ospiti sono infatti Norman René Devera e Peter Movrin, entrambi scelti da Elbaz come parte del team, quindi interni al progetto. Il risultato è una collezione fresca, svelta e pulita di abiti, grembiuli, camicie. Lo spirito è giocoso, la femminilità consapevole. Certo, il tocco di Elbaz non è replicabile, ma proprio per questo è inutile far confronti. Da Zimmermann non si va per cercare la moda, ma uno spirito: opulento, da vacanza in lussuosi resort, non importa la stagione. La collezione non fa che ribadire questi topos, con sontuosità particolarmente leggera. Da Sacai, Chitose Abe continua ad asciugare, puntando su una drammaturgia di volumi degna di Gianfranco Ferrè. Ci sono fierezza ed eleganza nel suo lavoro, e uno spirito di sintesi fieramente contemporaneo. Casey Cadwallader ha fatto un lavoro egregio da Mugler, rimodulando l’ultraglamour dell’inimitabile Thierry su una frequenza di oggi. Lo show è un capolavoro di economia: quattro ventilatori e veli per ogni dove su giacche e bustier scolpiti, e il fashion drama è servito. Al momento va così: basta poco. Oddio, non sempre: ci sono autori che ancora danno molto.

Eterno teatrante del drappeggio e dello sbieco, araldo imperituro di una flamboyance polverosa da lunatici in soffitta, John Galliano produce una prova magistrale di glamour in tempo di carestia: una elegia di recupero e non finito, completa di cappelli a paralume di cartone, scarpe rotte e imbastiture erranti. È un Galliano istrionico, ma anche insolitamente conciso nelle scelte: abbonda il nero, in una fantasticheria nella quale uomini e donne si scambiano proprio tutto e quel che conta è usare i vestiti per esprimersi nel modo piú viscerale e teatrale, perchè chi indossa una maschera, vuole il detto, dice sempre la verità.

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