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Manager PA, le nuove competenze per la sfida digitale e l’attuazione del PNRR

di Giancarlo Senatore*

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Manager PA, le nuove competenze per la sfida digitale e l’attuazione del PNRR

Manager PA, le nuove competenze per la sfida digitale e l’attuazione del PNRR

Per portare a compimento i grandi progetti strategici per il Paese, è urgente un intervento concreto e coraggioso che introduca un diverso approccio al management pubblico

20 dicembre 2023
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4' di lettura

Le sfide della trasformazione digitale e dell’attuazione del PNRR richiedono nuove competenze manageriali nella Pubblica Amministrazione. Per portare a compimento i grandi progetti strategici per il Paese, è urgente un intervento concreto e coraggioso (decisamente più coraggioso di quanto non sia stato fatto finora), che introduca un diverso approccio al management pubblico. Proviamo ad evitare i luoghi comuni con un’analisi empirica da parte di chi ci opera tutti i giorni in simbiosi.

Quale potrebbe essere il modello di management di riferimento, per essere veloci e efficaci? Non è affatto scontato rispondere a questa domanda, perché la PA italiana nel corso dei decenni è stata interessata da una serie di riforme che hanno prodotto una sovrapposizione di modelli derivati da culture diverse, senza maturare un proprio processo organico di sviluppo. Ogni Ministro ha realizzato la sua riforma con visioni differenti (come è giusto che sia per la classe politica), ma lo staff permanente ha inseguito le norme senza riuscire ad anticipare una visione prospettica del manager pubblico del futuro.

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Il risultato è uno scenario estremamente diversificato, in cui mediamente disponiamo di un ventaglio che va da manager dotati grandi conoscenze e capacità cognitive, il cui limite è soprattutto la capacità di execution, a grandi esecutori con spiccate capacità relazionali ma non sempre attenti alla formalità e alla complessità della macchina amministrativa. Sarebbe sbagliato generalizzare: nella macchina pubblica convivono espressioni manageriali di altissimo livello (in percentuali minoritarie), a fianco ad esempi critici di gestione, incapaci di assolvere alla funzione esistenziale di un dirigente che consiste nell’assumere decisioni, facendosi carico della relativa responsabilità. Questi, in percentuale crescente, si propongono addirittura ad esempio per gli altri, come capaci di “navigare” senza decidere nulla ed ergendosi a sacerdoti della cosiddetta “dirigenza difensiva”.

Serve un equilibrio tra gli estremi descritti, ma in questo scenario è veramente complicato identificare un modello manageriale, che non è emerso dopo decenni di pressione culturale costante verso il “meglio non fare”, in cui chi ha provato a innovare è stato etichettato come carrierista o troppo ambizioso, ghettizzato perché in grado di scardinare l’ordine costituito.

Una buona base di partenza teorica per definire un approccio manageriale nella PA potrebbe essere uno studio OCSE del 2017 che ripropongo adattato in un modello di 6 competenze, conoscenze o attitudini per l’innovazione nel settore pubblico. In questo modello, è fondamentale innanzitutto che le organizzazioni pubbliche aumentino la conoscenza del valore dei dati in loro possesso (data literacy), cioè l’utilizzo dei dati nel supporto alle decisioni: un’attività non scontata per i manager pubblici italiani con background prevalentemente giuridici. Come secondo punto, la PA deve avere un approccio centrato sull’utilizzatore dell’offerta di servizi: il “cittadino al centro” si è affermato ormai come obiettivo diffuso, ma basta provare a pagare una multa sui siti internet di molti Comuni per capire come nella pratica sia spesso disatteso. Terzo, deve alimentare la narrativa dei valori che impregnano la funzione pubblica, cioè una cultura del racconto, che si è affermata oggi solo a macchia di leopardo, tanto da alimentare luoghi comuni (positivi e negativi) a volte esagerati e irrealistici.

Quarto punto, alla PA italiana serve curiosità, nel senso di attenzione alle novità, capacità di guardare la realtà che ci circonda e calarla negli atti della burocrazia: un’attitudine che oggi nel pubblico non viene richiesta alle persone e quindi assolutamente non incentivata. Quinto, deve avere insurgency, una “insofferenza” per lo status quo: per portare innovazione deve incoraggiare il cambiamento portato da quelli che dicono “non mi interessa che sia stato sempre fatto così”. Su questo, molta strada resta da compiere: tanti giovani sono entrati negli enti pubblici (con ruoli manageriali) con le nuove assunzioni PNRR, ma in alcuni casi dopo pochi mesi assistiamo all’azzeramento della loro capacità proattiva.

Sesto, nel settore pubblico bisogna introdurre iterazione, un approccio fatto di sperimentazioni, test e reiterazione di progetti, anche se inizialmente falliti: solo così si può superare la resistenza al cambiamento, accompagnando le spinte innovative, testandole e, se serve, riproponendole con pervicacia.

Analizzando il management pubblico italiano secondo questo modello, si nota come stiano prendendo piede, con luci e ombre, la centralità del cittadino e la narrazione, si intravedono i primi passi di utilizzo efficace dei dati a supporto delle decisioni, ma siamo davvero quasi all’anno zero su curiosità, insurgency e iterazione. La PA ha ancora difficoltà nel rompere gli equilibri preesistenti, importare e sperimentare il nuovo, traducendolo in nuovi processi. Superare la “dirigenza difensiva” è il compito del manager della PA di oggi, che deve tradurre in atti concreti il PNRR, improntato sulla transizione ecologica e digitale.

Come favorire questa evoluzione? A mio avviso, agendo a tre livelli. Innanzitutto, è fondamentale dare maggiore dignità al profilo del dirigente pubblico, a cominciare dalle retribuzioni che, a differenza del senso comune, sono spesso inadeguate, inferiori ai corrispondenti profili nel privato. È importante soprattutto differenziare le retribuzioni in base alle responsabilità effettive ricoperte dai manager, dando loro maggiore indipendenza rispetto al potere politico e capacità di rischio. Poi, è necessario fornire una spinta alla capacità di execution dei dirigenti, grazie a una “delegificazione”, che non significa eliminare le leggi, ma consentire l’azione attraverso alleggerimento delle norme e adozione in ambito gestionale di leve amministrative di secondo-terzo livello.

Infine, come in ogni processo di cambiamento, è fondamentale agire a livello culturale, con azioni di formazione (reskilling e upskilling), accompagnamento, mentoring, ma anche ibridazione e cross-fertilizzazione di competenze diverse. È cruciale, in questa fase, rendere più compatibili le vecchie e le nuove generazioni che oggi si trovano a lavorare fianco a fianco nelle organizzazioni: solo con una giusta integrazione tra background, esperienze e mondi diversi può germogliare la spinta innovativa nella PA. La nuova ondata di rinnovi contrattuali nazionali sembra muoversi in questa direzione ma ne vedremo gli effetti, come è stato anche per le altre riforme, solo nella effettiva esecuzione.

* Presidente di Intellera Consulting

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