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Egitto-Etiopia, accordo entro quattro mesi per la «Diga della rinascita» sul Nilo

di Alberto Magnani

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Ahmed e al-Sisi, stretta di mano dopo l’accordo sui nuovi negoziati (Reuters)

Ahmed e al-Sisi, stretta di mano dopo l’accordo sui nuovi negoziati (Reuters)

Si riapre la saga diplomatica per il più grande impianto idroelettrico dell’Africa, al centro di tensioni fra il Cairo e Addis Abeba. L’obiettivo è strappare un’intesa entro l’anno

14 luglio 2023
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3' di lettura

Egitto ed Etiopia tornano a trattare sul dossier più insidioso fra i due: le operazioni della Grand Ethiopian Renaissance Dam, la maxi-diga sul Nilo azzurro costruita da Addis Abeba e avversata dal Cairo perché «ruberebbe» la quasi totalità delle risorse idriche egiziane. Non è il primo round di negoziati agli atti, dopo il flop di quelli triangolati da Unione africana e Stati Uniti per arginare un’escalation già scivolata sull’orlo delle minacce militari. Sulla carta, però, i termini devono essere più chiari: il presidente egiziano al-Sisi e il premier etiope Abiy Ahmed hanno concordato di raggiungere un’intesa entro quattro mesi e di coinvolgere nell’accordo il Sudan, allineato all’Egitto nell’ostilità all’attuale progetto etiope ma oggi assorbito dal conflitto intestino fra l’esercito regolare e i paramiliari delle Rapid support forces.

La saga diplomatica sulla «Diga della rinascita»

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Le trattative aprono l’ennesimo capitolo di una saga diplomatica iniziata con l’annuncio stesso della «Diga della rinascita», come il governo etiope ha ribattezzato un’opera affidata all’italiana Webuild e destinata a soppiantare la povertà energetica del secondo Paese più popoloso dell’Africa. La diga, immaginata per la volta negli anni ’60 del secolo scorso, è lunga 1.800 metri e alta 170, con una capacità stimata di contenere 74 miliardi di metri cubi d'acqua e generare oltre 5mila megawatt di energia grazie alle due centrali installate ai suoi piedi. Numeri che la eleggerebbero, a regime, come il più grande impianto idroelettrico su scala africana, affrontando le carenze di forniture che condannano un’economia in crescita da decenni a blackout e ritardi nella produzione.

Non sorprende che l’opera sia diventata uno dei pilastri dell’agenda di riforme avviata da Abiy Ahmed nella fase ascendente della sua premiership e poi interrotte dal doppio trauma di Covid e guerra civile dilagata del 2020-2022 con i ribelli settentrionali del Tigray. Né che la sua progettazione abbia scatenato tensioni fin dalle origini, in uno scambio di accuse reciproche che ha fatto paventare interventi dell’esercito o “soli” strappi diplomatici in una regione tutt’altro che stabile.

Le ragioni della contesa sono note e riguardano il peso sia simbolico che effettivo del Nilo sui tre Paesi e rispettivi sistemi economici. L’Egitto attinge dal Nilo fino al 97% delle sue risorse idriche e insiste da tempo perché vengano fissati dei paletti sulle operazioni della diga etiope, temendo un drenaggio di acque con ricadute letali sulla produzione agricola e la tenuta di un Paese già scosso da inflazione e instabilità. Il Sudan gode di un peso minore nel faccia a faccia fra il Cairo e Addis Abeba ma si è sempre schierata con l’Egitto contro la minaccia «esistenziale» di un gigante che sorge a pochi chilometri dai confini sudanesi.

L’Etiopia ha sempre sostenuto che la diga non intaccherebbe l’approvvigionamento idrico di Egitto e Sudan, salvo finire ai ferri corti con i due partner sulla richiesta di al-Sisi: la garanzie di quote che assicurino il rifornimento d’acqua a entrambi i Paesi, vincolando l’operatività della «Gerd» a criteri stabiliti insieme al Cairo e Khartoum. Finora i compromessi sono sfumati, chiudendo i round negoziali con un nulla di fatto che ha aumentato il nervosismo e lasciato in sospeso la risoluzione del conflitto. Ora le scadenze per scendere a patti sono chiare. Non è detto che i termini dell’accordo, e la sua affidabilità, lo siano.

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