di Angelo Flaccavento
Prada
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Era l’altroieri che si immaginava un mondo contactless, igienizzato, incellophanato, robotizzato, se non proprio congelato, privo di alcunché potesse suggerire una congiunzione di epidermidi, men che mai qualcosa di carnale, o anche solo sentimentale, per tema di eccesso di umano come sinonimo di sporco e caduco. E invece, puntualmente, tre anni e rotti dopo siamo esattamente dalla parte opposta: in un nuovo impero dei sensi, dove le mani – esploratrici, indagatrici ma in primo luogo creatrici – sono indubbie protagoniste. Mani che toccano, si muovono, mani che fanno.
La seconda giornata di sfilate milanesi è all’insegna del tatto, che vuol dire anche riscoperta della manualità del far vestiti, un aspetto spremuto e a volte rovinato, nel recente passato, da troppo storytelling farlocco. «Anche se di solito non lo facciamo, per questa stagione abbiamo voluto parlare della complessità del lavoro che ruota attorno ai nostri abiti. Volevamo renderlo riconoscibile», dice Raf Simons al termine della sfilata Prada.
Gli fa eco Miuccia Prada: «C’è un ritorno al concreto, alla fisicità e al reale». Un reale molto sensuale, va detto: tutto da stropicciare, palpeggiare, consumare, con contorno, nel set di metallo smaltato di rosa, di slime colante. Una sottile perversione, del resto, elettrizza da sempre i codici Prada e questa è una collezione pradissima, tutta fatta di inaudite congiunzioni di maschile e femminile, di flapper da sciantosa e cardigan da istitutrice, frange ricamate e cinture robuste, pantaloncini azzimati e giubbotti proletari, abitini liquidi e scarpette neon. Lo conferma l’uscita in passerella insieme ai due direttori creativi, di Fabio Zambernardi, direttore di studio e veterano che ai successi del marchio e all’iconografia tutta ha molto contribuito, e che a breve lascerà l’azienda. La standing ovation, a lui e tutti, è meritata: la sfilata è un riassunto aggiornato e distorto del meglio di Prada.
Da MM6 sono le mani come gestualità: abiti che cambiano con le pose, che suggeriscono modi di porgersi; giacche allungate, pantaloni allampanati, e una idea di normalità unita ad un senso di verticalità. Da Diesel sono mani che strapazzano intensamente la materia, che la maltrattano, distruggono, consumano: l’effetto distressed è centrale nella visione del direttore creativo Glenn Martens, designer capace di congiungere una visione radicalmente autoriale con l’ecumenismo richiesto da un marchio, essenzialmente, di denim. La sfilata si svolge durante un rave ed è di un’energia esplosiva, nonostante la pioggia.
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È piena di vita e di colore anche la sfilata di Benetton. Ambientata in una ideale agorà, luogo di democrazia e scambio, è una gioiosa reiterazione, ad opera di Andrea Incontri, di un linguaggio immediato e anche ovvio, ma efficace. C’è un nuovo senso di manualità, ma anche di realismo, da GCDS: Giuliano Calza omaggia la città natale, Napoli, i suoi contrasti, il suo spirito, in una collezione, se non sorprendente, almeno matura, che guarda al cavallo di battaglia, il logo, da una angolazione artigianale.
Nell’imperante clima riduzionista, l’estetica che si purifica corrisponde ad un nuovo interesse per la funzione. Da Max Mara, Ian Griffiths guarda con occhio gentile al militare – tute, grembiuli, trench, tasconi generosi e, sul lato meno donante, baschine e bretelle che si intrecciano, e pantaloni arcuati – lavorando su una silhouette anni quaranta, forte di spalle ma dalla vita segnata, che, in un contesto utility, appare fresca. Si ispira alle Land Army Women, un “esercito pacifico” di donne che negli anni quaranta, in Gran Bretagna, si organizzarono in squadre per coltivare la terra e sfamare il Paese. Nulla di bellico, quindi, ma di molto muliebre: accogliente, generoso.
Dove non si parla di mani questa stagione è la leggerezza a guadagnare la ribalta: quanto di più estivo e, in tempi plumbei, necessario. Da Emporio Armani, Giorgio Armani parla di un’estate come condizione dello spirito e immagina una collezione che è leggera come una brezza in un giardino pantesco. La silhouette è corta e scattante, le scarpe sono piatte, i colori sono freschi e delicati. Tutto scorre davanti agli occhi in un fluire impalpabile che rasserena.
Da Giada, Gabriele Colangelo lavora su trasparenze sapienti che smaterializzano le linee esatte, i languori composti, esprimendo una purezza piena di sentimento. Da Genny, Sara Cavazza Facchini, che festeggia dieci anni di direzione creativa, esplora il bianco e una vaporosità avvolgente, mentre da Blumarine è un ossimoro sensuale di diaboliche donne angelicate.
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Per i quarant’anni di Moschino, infine, la maison, attualmente priva di direttore creativo, dopo l’addio di Jeremy Scott, ricorre alla interpretazione di quattro stylist: Carlyne Cerf, Gabriella Karefa, Katie Grand, Lucia Liu. Dagli slogan allo chic classico ma sovvertito, queste abili assemblatrici mettono a fuoco, ciascuna, un tratto del Dna di Moschino. Il risultato è sciapo e scolastico, ma una cosa è certa: si torna al pop italiano del fondatore Franco, dimenticando il pop americano di Scott. È già qualcosa.
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