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John Rawls e l’ideale di una società “ben ordinata”

di Vittorio Pelligra

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Primo piano di John Rawls, filosofo, il 20 marzo 1987 a Parigi. (Foto di Frederic REGLAIN/Gamma-Rapho tramite Getty Images)

Primo piano di John Rawls, filosofo, il 20 marzo 1987 a Parigi. (Foto di Frederic REGLAIN/Gamma-Rapho tramite Getty Images)

Quando John Rawls pubblicò nel 1971 il suo libro più importante, Una teoria della giustizia, si capì subito che eravamo davanti ad un’opera notevole che avrebbe potuto cambiare per sempre il modo di fare filosofia politica

25 febbraio 2024
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6' di lettura

Quando John Rawls pubblicò nel 1971 il suo libro più importante, Una teoria della giustizia, si capì subito che eravamo davanti ad un’opera notevole che avrebbe potuto cambiare per sempre il modo di fare filosofia politica. L’impatto fu enorme. Sebastiano Maffettone, filosofo e curatore dell’edizione italiana sostiene che “Le ricadute accademiche sono state tanto numerose da rendere praticamente impossibile un controllo rigoroso della letteratura su A Theory of Justice” (Introduzione a Rawls, Laterza, 2010). Ma l’influenza delle idee sviluppate nel libro travalica presto i limiti dell’accademica.

Come sottolinea Thomas Pogge, uno degli ultimi allievi di Rawls “Nessuno che sia realmente interessato ai temi della giustizia sociale può permettersi di non studiare con attenzione quest’opera”. L’accoglienza fu entusiastica anche tra il grande pubblico, cosa piuttosto insolita per un libro di filosofia, lungo, difficile e in molti passaggi perfino ostico. Venne recensito con favore da molte riviste culturali come The Spectator o New Statesman e se ne occuparono perfino quotidiani o settimanali come il New York Times, Washington Post o l’Economist. Le ragioni di tale successo non sono facili da individuare. Non si tratta di un libro che propone idee rivoluzionarie, utopistiche o particolarmente radicali. L’orientamento di fondo è quello di una versione egualitaria del liberalismo tradizionale. Certo si affrontano grandi temi classici, gli stessi che hanno impegnato Hobbes, Locke, Rousseau e Mill, ma Rawls, diversamente dai predecessori lo fa con stile asciutto e un linguaggio accademico che lo allontana dalla scrittura godibile ed evocativa dei classici suoi predecessori. Da un punto di vista metodologico Una teoria della giustizia innova la filosofia politica anglosassone che era intrappolata in un esasperato formalismo e si era allontanata dai temi centrali del dibattito pubblico del tempo.

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Erano gli anni, negli Stati Uniti come in Europa, della contestazione e delle controculture. I movimenti per i diritti civili, il Black Liberation Movement, i pacifisti che manifestavano contro la guerra in Vietnam, il “Sessantotto” europeo animavano le strade, il dibattito pubblico e infiammavano i cuori dei giovani. In questa temperie Rawls riesce a fare sintesi tra l’esigenza di una ricostruzione teorica e istituzionale che fosse capace di accogliere l’eredità dei grandi classici, da Hobbes a Kant, e al contempo di parlare alle idealità del suo tempo presente. E infatti, come scrive ancora Maffettone, “Dopo Una teoria della giustizia la filosofia politica ha ripreso un vigore straordinario (…) L’idea di giustizia sociale o distributiva viene riproposta da Rawls in maniera differente non solo da quella dell’antichità, ma anche da quella di liberali e socialisti moderni e contemporanei. Secondo Rawls, i cittadini di uno Stato liberal-democratico non dovrebbero mai accettare le ineguaglianze socio-economiche dovute a un sistema di istituzioni che non siano in grado di giustificare moralmente gli uni agli altri”.

Il successo del libro fu tale che costrinse il suo autore a cambiare i piani. Avrebbe voluto, infatti, cimentarsi con la stesura di una nuova opera sulla psicologia morale ma le reazioni a Una Teoria della Giustizia furono talmente numerose che per molti anni egli si dovette dedicare a replicare alle migliaia di critici e commentatori di tutto il mondo. 

L’idea di base del libro è semplice: quali caratteristiche devono possedere le regole che una comunità decide di darsi per fondare e dirigere le proprie istituzioni e per distribuire secondo giustizia i benefici reciproci della vita in comune?

Effetti indesiderati dell’utilitarismo

La proposta di Rawls prende le mosse da una critica radicale all’approccio utilitarista che aveva dominato la riflessione filosofica anglosassone fino ad allora.  Nonostante egli ne condivida lo spirito riformista, non può non sottolineare l’incapacità dell’utilitarismo di attribuire ai singoli pari considerazione e dignità. Per gli utilitaristi l’obiettivo di una società giusta dev’essere quello della massimizzazione della somma delle utilità individuali. In questo quadro il benessere dei singoli cittadini acquista senso solo come elemento di tale somma e non in virtù della dignità e dell’intrinseco valore del singolo individuo.

Tale prospettiva può generare, come abbiamo visto quando abbiamo affrontato i filosofi utilitaristi, effetti indesiderati e in palese contraddizione con le caratteristiche che intuitivamente attribuiamo all’idea stessa di giustizia. Se un giovane ricco e in salute, per esempio, riesce a trarre maggiore godimento da una certa quantità di denaro rispetto a ciò che potrebbe fare un anziano, povero e disabile, nella prospettiva utilitarista sarebbe giusto che lo stato favorisse una redistribuzione del reddito sottraendolo al povero anziano per darlo al giovane ricco, perché in questo modo il benessere della società complessivamente aumenterebbe. Non esiste nell’utilitarismo, dunque, per dirla con Rawls “alcuna ragione di principio per la quale i maggiori vantaggi di alcuni non dovrebbero compensare le minori perdite di altri; o, in termini rilevanti, perché la violazione della libertà di pochi non potrebbe essere giustificata da un maggior bene condiviso da molti (…) La natura della decisione presa dal legislatore ideale non è quindi sostanzialmente diversa da quella di un imprenditore che decide come massimizzare il suo profitto producendo questa o quella merce, o da quella di un consumatore che decide come massimizzare la sua soddisfazione acquistando questo o quell’insieme di beni”. La questione della giustizia rischia di diventare in questo modo una semplice questione di “amministrazione efficiente”.

Benessere sociale vs diritti individuali

Rawls si oppone a questa visione nella quale il benessere sociale ha la priorità sul rispetto dei diritti individuali. Analogamente vengono prese le distanze dal cosiddetto intuizionismo secondo cui ognuno di noi avrebbe un senso morale innato capace di guidarci e orientarci attraverso principi che riconosciamo intuitivamente giusti. Tali principi possono rappresentare, sostiene Rawls, in assenza di una struttura teorica ricca e articolata, al massimo una guida approssimativa alla nostra azione. Al pari dell’utilitarismo e dell’intuizionismo viene criticato anche il cosiddetto “perfezionismo”, quella prospettiva teleologica, come le etiche di matrice aristotelica, secondo cui il giusto coincide con ciò che consente il raggiungimento di una data finalità, per esempio l’eudemonìa intesa come fioritura umana attraverso l’esercizio delle virtù. In questo senso il legislatore sarebbe legittimato ad orientare le vite dei cittadini verso il raggiungimento di un certo ideale di vita ritenuto migliore rispetto agli altri.

La posizione rawlsiana cerca di superare i limiti di queste tre prospettive radicandosi nella tradizione kantiana. Si ispira, infatti, alla visione deontologica del filosofo tedesco per il quale le azioni posseggono un valore in sé distinto dal valore delle conseguenze che esse producono in termini di benessere, utilità o di “fioritura”. Se è vero, da una parte, che la valutazione morale delle scelte individuali e sociali non può prescindere del tutto dalle conseguenze che esse producono, è altrettanto vero, che le conseguenze prodotte non possono essere l’unico metro di misura della bontà di un’azione. Una bugia a fin di bene, infatti, è sempre una bugia benché meno grave di una bugia malevola. La violazione di un patto è sempre un atto moralmente deprecabile anche se produce conseguenze benefiche in termini di utilità. Mantenere una promessa continua ad essere moralmente giusto anche se le conseguenze possono rivelarsi costose e inefficienti sotto diversi punti di vista. Un omicidio, anche se mitigato dalla legittima difesa, rappresenta sempre un atto terribile e tragico.

In questo quadro deontologico la proposta di Rawls si appoggia all’idea di imperativo categorico: “Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”, come scrive Kant nella Fondazione della Matafisica dei Costumi.

Giustificazione dei principi etici

In questa formulazione, però, l’idea di universalizzabilità incorporata nell’imperativo mal si adatta ad una visione sociale, che riguarda le istituzioni e gli assetti politici che da queste scaturiscono. Rawls risolve questa difficoltà introducendo una delle sue idee centrali, quella della giustificazione dei principi etici in maniera procedurale. Si parte, cioè, da una posizione iniziale, quella che verrà definita “posizione originaria”, e poi ci si chiede quali esiti riusciranno ad ottenere soggetti razionali e cooperativi impegnati in un processo di discussione e contrattazione. Su quali regole comuni e condivise troveranno un accordo? In questo modo l’imperativo categorico individuale può assumere una dimensione sociale diventando un impegno vincolante proprio perché scaturisce da un accordo comune. In questo modo Rawls si inserisce, trasformandola profondamente, nella prospettiva del contrattualismo che a partire da Hobbes, fino a Rousseau, Locke e lo stesso Kant ha caratterizzato una parte importante della riflessione politica occidentale.

Vedremo nelle prossime settimane quali caratteristiche avrà questo contratto, come si genera, quali escamotage teorici Rawls dovrà adottare per superare le non poche difficoltà connesse al processo di negoziazione. E vedremo infine quali principi emergeranno come bussole e guide della nostra navigazione nel mondo della giustizia politica. Una navigazione che dovrebbe farci avvicinare, questo è l’obiettivo di Rawls, ad una società “ben ordinata”. Una società, cioè, nelle sue stesse parole, “tesa a promuovere il benessere dei propri membri, regolata in modo effettivo da una concezione pubblica della giustizia”. Una società, cioè, in cui “ognuno accetta e sa che gli altri accettano i medesimi principi di giustizia e dove le istituzioni fondamentali della società soddisfano generalmente, e in modo generalmente riconosciuto, tali principi”. I manganelli che si schiantano sui corpi dei giovani manifestanti di Pisa ci fanno capire quanto ancora siamo distanti da una tale società.

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