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Vino, più tasse e dazi in Russia e Regno Unito (terzo Paese dell’export italiano)

di Giorgio dell'Orefice

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(Universal Images Group via Getty)

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Per la prima volta in Europa l’accisa non si calcola più solo sui volumi ma sul grado alcolico, avvantaggiando la birra

13 settembre 2023
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3' di lettura

Si complica lo scenario internazionale per il vino italiano. A un quadro che nel primo semestre di quest’anno ha fatto segnare cali quantitativi in doppia cifra per le vendite in Usa, Canada, Giappone, Norvegia, Cina e Corea del Sud si sono aggiunte due inaspettate novità negative: il rialzo dei dazi sul vino della Russia e, soprattutto, le nuove accise sugli alcolici imposte dal primo agosto scorso dal Regno Unito.

A preoccupare è soprattutto la novità britannica perché mentre la Russia è solo il decimo mercato per il vino italiano (anche se è il quinto con riferimento ai soli spumanti) il Regno Unito invece è saldamente il terzo sbocco per le etichette italiane (alle spalle di Usa e Germania) con un fatturato che nel 2022 è stato di 741 milioni.

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In linea con le indicazioni dell’Oms che raccomanda la riduzione mondiale dei consumi di alcol (senza distinzione tra uso e abuso), mentre l’Irlanda punta sui warnings in etichetta il Regno Unito punta a fare cassa con un nuovo sistema di accise (che resteranno in vigore 18 mesi poi potrebbero essere ancora ritoccate al rialzo) definite innanzitutto con un nuovo metodo di calcolo parametrato non più sul volume ma sul grado alcolico. Si tratta di una normativa pensata quindi per frenare in primo luogo le vendite di superalcolici ma che sul mercato britannico riporteranno in auge la birra penalizzando invece il vino (che Oltremanica si produce in piccolissime quantità).

Vengono infatti assoggettati a un’accisa rafforzata (da 2,97 a 3,56 euro al litro, +20%) i vini fermi con una gradazione da 11,5 a 14,5 gradi. Passa da 3,96 a 4,27 sterline al litro (+7,8%) per i vini con gradazione superiore a 14,5 gradi mentre invece scende da 3,81 a 3,56 (-6,5%) per gli spumanti.

«La scelta del Regno Unito – ha commentato il segretario generale dell’Uiv, Paolo Castelletti – segna una novità assoluta in Europa: per la prima volta, infatti, l’accisa non si calcola più solo sui volumi ma sul grado alcolico. Ma se da una parte la tassa sembra fatta per scoraggiare i consumi di superalcolici, dall’altra penalizza anche il vino (che nulla ha a che fare con gli spirits) e avvantaggia, forse non a caso, l’industria della birra».
«C’è preoccupazione – ha concluso – non solo per questo periodo transitorio di 18 mesi, che vede un aumento delle accise nell’ordine del 20% per i vini fermi e un decremento del 6,5 per gli spumanti, ma anche per futuro, quando le accise cambieranno e ogni grado (o frazione) avrà la propria quotazione, causando non pochi disagi anche sul piano amministrativo».

La notizia dell’inasprimento fiscale definito da Londra si aggiunge all’innalzamento dei dazi introdotto nei giorni scorsi da Mosca che con un decreto di agosto (e contrariamente alle rassicurazioni fornite dalle autorità) ha assoggettato tutti i vini e i vermouth a un dazio doganale del 20% (contro la precedente tariffa del 12,5%). Insomma, il quadro per il vino italiano ed europeo si complica.

Le difficoltà di mercato si sommano alle preoccupazioni del mondo produttivo per una vendemmia partita con livelli di giacenze ai massimi sia in Italia che in Spagna. Preoccupazioni testimoniate dalle molteplici richieste di distillazione di crisi nei principali Paesi produttori. In Francia le misure per il ritiro dal mercato del vino sono state inoltre accompagnate da un piano di estirpazione dei vigneti nell’area di Bordeaux. In Spagna, invece – è notizia dei giorni scorsi – si è assistito a un drastico taglio delle domande di autorizzazione per piantare nuovi vigneti crollate in un solo anno del 35 per cento.

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