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Solo nel tuo riconoscimento trova spazio la mia libertà

di Vittorio Pelligra

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Immanuel Kant

Immanuel Kant

l tema del “riconoscimento” attraversa la filosofia europea da ormai più di tre secoli

3 dicembre 2023
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7' di lettura

Il tema del “riconoscimento” attraversa la filosofia europea da ormai più di tre secoli. Con un’accezione negativa nelle riflessioni dei moralisti francesi e poi quella di Rousseau, mentre per gli inglesi, Hume, Smith e Mill, il riconoscimento occupa un posto essenziale e più che positivo nello sviluppo delle virtù sociali. Per i filosofi tedeschi, Kant e Fichte, in particolare, la situazione è ancora differente, così come lo è il contesto nel quale la loro riflessione nasce. Non si vive più il collasso del sistema feudale, come in Francia, né la transizione alla società mercantile come in Inghilterra.

Il tema dominante è per i tedeschi quello del faticoso processo di emancipazione della borghesia. Questo elemento influenza naturalmente il loro approccio filosofico. Mentre Rousseau fissa il punto sul concetto di amour propre e Hume e Smith su quello di sympathy, Kant si concentra sull’Achtung, l’idea di “rispetto”. Il punto di partenza kantiano rimane però scozzese nell’ispirazione. Egli, infatti, così come Hume e Smith, è convinto che la competenza morale, l’autodominio, nasca dall’assunzione di una prospettiva imparziale dalla quale giudicare la propria condotta. Se tale prospettiva, poi, evolvendosi finisce per riassume gli sguardi di ogni essere umano, allora essa andrà a coincidere con la prospettiva puramente razionale dell’imperativo categorico. Perché sarà morale ciò che può essere accettato da ogni agente razionale e da qui al criterio di “universalizzabilità” che definisce l’imperativo categorico il passo è breve.

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La prospettiva kantiana, però, appare ancora insoddisfacente rispetto ad un punto: la sua normatività. Perché, infatti, una volta individuato attraverso il criterio di universalizzabilità l’insieme di regole giuste, dovremmo decidere di conformarci a tali regole? Dove trova radice la cogenza dell’imperativo kantiano? È in questo punto che l’idea di “rispetto” entra in scena; quel “rispetto”, dice Kant, che dobbiamo agli altri perché riconosciamo in loro lo sforzo che noi stessi compiamo per adeguarci, come loro, alla legge morale. Perché è vero che il rispetto “verso una persona – scrive Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi - è, propriamente, solo rispetto verso la legge”, ma tale rispetto verso la legge è incarnato, può manifestarsi concretamente, cioè, solo perché concretamente una data persona ha accettato tale legge ed è a tale persona, ai suoi sforzi per conformarsi alla legge morale, che dobbiamo il nostro “rispetto”. Ciò significa che la scelta di adeguare il nostro comportamento alle norme morali è legata al fatto che la fatica altrui che deriva dal conformarsi alle massime morali esige da parte nostra un rispetto tale che è capace di bilanciare e regolare le nostre spinte egoistiche. “Il rispetto per l’altro – suggerisce Axel Honneth commentando questo snodo del pensiero kantiano - opera, insomma, un cambiamento nella nostra natura empirica, perché ci costringe a dare la precedenza ai comandi morali della ragione sui nostri interessi egoistici”. Ciò che ci dobbiamo reciprocamente, perché impegnati nella realizzazione della legge morale è quindi molto diverso sia dal riconoscimento che elargiamo per nutrire l’amour propre immaginato da Rousseau, sia da quello che desideriamo per orientare la nostra bussola morale, di cui parlano Hume e Smith. Il “rispetto” kantiano è reciproco e universale; è dovuto ad ogni uomo che agisce moralmente ed è la condizione affinché questi si possa autodeterminare. La libertà dell’altro, infatti, si sviluppa nello spazio vuoto che si genera dalla scelta di limitare il mio egoismo. La possibilità dell’esercizio di tale libertà è, dunque, la ragione ultima che fonda la necessità stessa del “rispetto”.

In questo modo il pensiero kantiano apre la strada ad una via tedesca al “riconoscimento” che verrà percorsa più compiutamente da Fichte e portata successivamente a sintesi da Hegel. Johann Fichte parte dall’orientamento kantiano al “rispetto”, criticandolo e allo stesso tempo sviluppandolo fino ad elaborare una vera e propria teoria dell’inter-soggettività. La finalità ultima di Fichte è quella di spiegare la nascita dell’autocoscienza, della consapevolezza, cioè, dell’essere umano, della libertà delle sue scelte e della responsabilità che ne deriva. Il primo passo è negare che tale consapevolezza possa nascere dal confronto individuale del soggetto con il mondo materiale, nel confronto con la materia inerte. L’elemento essenziale viene individuato, piuttosto, nel rapporto con l’altro essere umano e più precisamente in quel particolare tipo di rapporto che egli definisce Aufforderung, “esortazione”. L’esortazione costituisce un appello che l’altro con cui ci incontriamo ci rivolge. È la condizione per l’azione libera. Non è una costrizione e neanche una richiesta a fare o a non fare qualcosa, quanto piuttosto la consapevolezza che la sola presenza di un altro ci spinge a concepire un’azione. Affinché tale esortazione possa operare in questo modo occorre da parte del soggetto “esortato” la comprensione della natura del soggetto “esortante”. Il primo passo del rapporto, cioè, è quello del riconoscimento della natura umana e razionale dell’altro con cui stiamo interagendo. Questo passo è solo il primo e non esaurisce le precondizioni necessarie allo sviluppo della relazione. Bisogna, infatti, che si instaurino credenze del secondo ordine, si direbbe oggi, vale a dire che il soggetto “esortato” creda che il soggetto “esortante” sia cosciente della natura umana e razionale del soggetto stesso. La presenza dell’altro, dunque, rappresenta un appello all’esercizio della mia libertà perché credo che egli si aspetti questo da me e credo che egli sappia che io so ciò che lui si aspetta.

A questo punto il discorso si discosta in maniera decisiva dall’impostazione kantiana basata sul “rispetto”. Fichte, infatti, pone a fondamento dell’azione moralmente responsabile la consapevolezza da parte dell’agente del fatto che il soggetto “esortante” ha scelto liberamente di limitare la sua libertà nell’attesa che la sua stessa esortazione susciti la reazione libera dell’“esortato”, perché la mia azione libera può trovare spazio solo nel “luogo” lasciato libero dalla rimozione dei suoi interessi egoistici grazie ad un gesto di “autolimitazione volontaria”, come lo definisce Fichte, della sua libertà. L’Aufforderung è dunque una “esortazione” all’azione che presuppone da parte dell’“esortante” una rinuncia all’imposizione della propria volontà. Una tale esortazione non può lasciare indifferente il suo destinatario. Esso, infatti, per dimostrare di aver compreso l’appello all’azione libera che gli arriva dall’altro deve, paradossalmente, liberamente scegliere di non esercitare la propria volontà. È questa reciproca e libera scelta di autolimitazione della propria libertà che genera il “riconoscimento”. Come scrive lo stesso Fichte nel Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza: “Nessuno dei due può riconoscere l’altro, se tutti e due non si riconoscono reciprocamente, e nessuno dei due può trattare l’altro come un essere libero, se tutti e due non si trattano così reciprocamente”. La presenza dell’altro diventa la condizione necessaria affinché il soggetto possa acquisire la coscienza della propria attività spirituale. Una coscienza che si plasma nell’incontro con l’altro, grazie all’“esortazione” che la presenza dell’altro, reciprocamente rappresenta. Scrive Axel Honneth al riguardo “[Fichte] è convinto che un tale appello [l’esortazione] rivolto da un soggetto A a un soggetto B, proprio perché reciproco, comporti un mutamento nella disposizione interiore dei due soggetti, e perciò un mutamento radicale nella loro comprensione di sé.

Per quanto riguarda il soggetto “appellante”, Fichte sostiene che, nel momento in cui pronuncia il suo “appello”, deve “abbattere il suo amor proprio” di fronte al soggetto interpellato, perché non può fare a meno di accordargli la libertà di reagire come desidera. E per quanto riguarda il soggetto interpellato, vale anche qui lo stesso: deve “abbattere il suo amor proprio”, per segnalare al suo interlocutore che ha capito l’appello e, nello stesso tempo, gli accorda la libertà di reagire alla sua reazione” (Riconoscimento. Storia di un’idea Europea, Feltrinelli, 2018). L’incontro con l’altro ci trasforma perché trasforma la mia libertà ceduta in risposta all’appello dell’altro, da quest’ultimo mi viene riconsegnata mutata, in forma di piena autodeterminazione. È importante sottolineare che lo schema che abbiamo appena delineato nel quale il processo di riconoscimento intersoggettivo porta alla coscienza dell’autodeterminazione si articola in Fichte, come era stato in Kant, del resto, a livello trascendentale. Non siamo di fronte alla realtà concreta dei rapporti interumani ma in quel luogo della razionalità pura che ne determina la possibilità di esistenza, il quadro logico all’interno del quale tali rapporti potrebbero svilupparsi. Quello della “detrascendentalizzazione” di questo ragionamento è il compito che viene assunto da Hegel nel suo tentativo di sintesi del discorso fichtiano. Hegel vuole infatti ricostruire la genesi e gli effetti del processo di riconoscimento come via all’autodeterminazione, nel mondo della storia, dell’esistenza concreta, non solo nella vita del mondo “intelligibile”. Inizia, quindi, con il considerare come esempio concreto del mutuo riconoscimento il rapporto tra due innamorati. L’amore vero per l’altro, infatti, implica una autolimitazione della nostra libertà – non siamo legittimati a fare, volere, desiderare ogni cosa – perché la nostra libertà trova un limite nelle azioni, nella volontà e nei desideri dell’altro. Ma tale autolimitazione, quando accolta volontariamente si può trasformare in un’opportunità. Perché nel momento in cui il rapporto d’amore è un rapporto d’amore reciproco, la libertà dell’altro fiorirà nello spazio che avrò saputo creare per lui ritirandomi e facendomi “vuoto accogliente” e ciò lo renderà amabile ai miei occhi così come la mia libertà fiorirà nello spazio che l’altro avrà pensato per me e questo conferirà ancora maggior valore a ciò che mi rende amabile ai suoi occhi. Questa dinamica d’amore, rappresenta, dunque, per Hegel la forma più naturale e concreta di quel “rispetto” che Kant immagina e che Fichte aveva già trovato ma solo nel mondo freddo e distante dell’“intelligibile”.

L’amore, dunque, nel quadro della costruzione del giovane Hegel, costituisce l’esempio migliore di quel processo sociale di “riconoscimento” che consente di esercitare la propria libertà nel senso più vero “ritrovando sé stessi nel proprio altro”, per usare l’espressione dello stesso Hegel. Naturalmente la condizione che rende concretamente possibile la dinamica del riconoscimento e quindi la piena autodeterminazione implica necessariamente che tale riconoscimento sia effettivamente reciproco. Senza questa condizione la relazione si struttura in maniera asimmetrica e si genera dipendenza e sfruttamento, sottomissione e prevaricazione. A questa prima categorizzazione del riconoscimento come logica dell’intersoggettività, in anni successivi Hegel affianca, allargando il ragionamento, la sfera dei rapporti sociali e istituzionali. In questo quadro ciò che il soggetto riconosce all’altro e viceversa non è frutto tanto di una scelta individuale di autolimitazione quanto di una strutturazione dei rapporti sociali prevalenti tipici del momento storico nel quale i due soggetti sono nati e cresciuti. È questa struttura che determina gli interessi individuali ed è attraverso questa mediazione istituzionale che possiamo classificarli in termini di maggiore o minore appropriatezza e apprezzabilità. La struttura sociale può, infatti, anche essere rigida e ingiusta e non facilitare il processo di riconoscimento. Un assetto istituzionale asimmetrico – Hegel fa l’esempio della relazione tra servo e padrone – può rendere impossibile l’esercizio del riconoscimento perché viola la condizione indispensabile della reciprocità. Ma il bisogno di riconoscimento, secondo il filosofo tedesco, sarà sempre più forte di questi vincoli e promuoverà e animerà davanti all’ingiustizia quei moti di ribellione che porteranno ad un nuovo assetto istituzionale e sociale maggiormente capace di rispondere al desiderio profondo di ritrovare “Sé stesso nel proprio altro”.

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