di Sissi Bellomo
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All’escalation militare nel Mar Rosso si accompagna un’escalation anche nelle ricadute economiche, con le prime fermate di fabbriche in Europa attribuite ai contraccolpi degli attacchi Houthi contro le navi, decise da Tesla e Volvo. In parallelo la possibilità di rincari dei combustibili aumenta, in seguito all’accelerazione della fuga dalle aree a rischio da parte delle petroliere, che finora (soprattutto per motivi contrattuali) non avevano cambiato rotta in massa come le portacontainer.
Una ventina di navi per il trasporto di greggio e carburanti venerdì 12 hanno fatto dietrofront o si sono fermate in prossimità del Mar Rosso. E almeno tre armatori nel settore cisterne - Torm, Hafnia e Stena Bulk - hanno annunciato la completa sospensione dei transiti nella zona, dopo che Intertanko (l’associazione di riferimento) ha trasmesso per conto della task force a guida Usa la raccomandazione di «mantenersi ben lontano da Bab al-Mandab», lo stretto tra Mar Rosso e Golfo di Aden, davanti allo Yemen. Notizie che contribuiscono a spiegare l’impennata del Brent, con punte sopra 80 dollari al barile nel corso della seduta.
In una giornata convulsa, per i mercati e non solo, il primo annuncio shock era arrivato da Tesla, a poche ore dall’operazione con cui Usa e Gran Bretagna hanno colpito decine di obiettivi Houthi in territorio yemenita.
La società di Elon Musk sospenderà per due settimane, dal 29 gennaio all’11 febbraio, la produzione nella sua unica fabbrica europea di auto elettriche, la Gigafactory di Berlino: uno stop giustificato con il «gap nelle catene di rifornimento» provocato dai «conflitti armati nel Mar Rosso e relativi spostamenti delle rotte di trasporto», che allungano «in modo notevole» i tempi di spedizione di componenti dall’Asia.
Tesla prevede di riavviare «a pieno ritmo» lo stabilimento dal 12 febbraio, data entro cui conta di riuscire a riorganizzare la sua supply chain (che peraltro è inceppata da tempo anche da proteste e scioperi nei Paesi scandinavi).
Durerà invece solo tre giorni il fermo di produzione che Volvo Cars ha programmato la settimana prossima nella fabbrica di Gent, in Belgio: il gruppo svedese (controllato dalla cinese Geely) ha subìto ritardi nella consegna di scatole dei cambi spedite dalla Repubblica popolare.
Altre case automobilistiche – nello specifico le tedesche Bmw e Volkswagen, interpellate da Reuters – hanno escluso difficoltà di rifornimento tali da ostacolare la produzione nel breve termine. D’altra parte è innegabile che l’aggravarsi della crisi nel Mar Rosso comporti un rischio crescente di interruzione delle supply chain, soprattutto per le imprese basate in Europa. Se l’emergenza non si risolverà presto (cosa che sembra improbabile) come minimo c’è da aspettarsi un aumento dei costi di produzione, che a cascata alimenterà l’inflazione.
L’automotive è tra i settori più esposti, anche se ritardi nelle consegne e possibili carenze di prodotti erano stati anticipati nelle ultime settimane anche da società di altri settori, tra cui Ikea. Una recente analisi di S&P Global Market Intelligence evidenzia che dalla rotta via Suez passa il 41,3% dei veicoli e il 20,8% dei componenti per auto scambiati in Europa, Medio Oriente e Nord Africa. Rischi elevati sono individuati anche per abbigliamento, elettrodomestici, chimica, siderurgia, giocattoli e alcuni prodotti agricoli, come olio di palma, riso e tè.
Sissi Bellomo
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