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Il Primo emendamento Usa tutela le piattaforme e dà loro un ruolo editoriale

di Marco Bassini, Giusella Finocchiaro e Oreste Pollicino

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Il Primo emendamento Usa tutela le piattaforme e dà loro un ruolo editoriale

Il Primo emendamento Usa tutela le piattaforme e dà loro un ruolo editoriale

La Corte suprema degli Stati Uniti lo scorso 1° luglio si è pronunciata sul diritto delle piattaforme online di effettuare moderazione dei contenuti

10 luglio 2024
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4' di lettura

La Corte suprema degli Stati Uniti, con una sentenza dello scorso 1° luglio, si è pronunciata su un tema di grande attualità nella sfera pubblica digitale, ossia il diritto delle piattaforme online di effettuare moderazione dei contenuti “a loro piacimento”. Secondo i giudici, quando le piattaforme sociali come Facebook o YouTube scelgono quali contenuti di terzi rimuovere in base ai loro termini di servizio o alle loro linee guida, fanno ciò nell’esercizio della propria libertà di espressione, tutelata nell’ordinamento statunitense dal Primo emendamento. Il riconoscimento di questa copertura costituzionale apre a conseguenze assai importanti, in un’epoca contrassegnata, da una parte, da campagne di disinformazione e conflitti transnazionali nei quali la propaganda gioca un ruolo strategico e, dall’altra, dalla trasformazione, che si è spesso evocata in queste pagine, delle grandi piattaforme digitali. Una vera e propria trasfigurazione che porta quest’ultime a essere non più (soltanto) operatori economici ma anche veri e propri poteri privati in competizione con i poteri pubblici. Trasfigurazione che chiaramente chiama in causa il ruolo del costituzionalismo che, per definizione, ha quale missione genetica la limitazione del potere, sia esso di matrice pubblica o privata. Fatte tali premesse di metodo, facciamo un passo indietro per comprendere, dapprima, su quali basi il giudizio ha restituito una pronuncia così significativa e, successivamente, quali effetti dischiude la sentenza.Le piattaforme digitali sono nate e si sono affermate come aggregatori di contenuti creati o pubblicati da utenti terzi, senza un ruolo editoriale equiparabile a quello che contraddistingue, per esempio, televisione e stampa. Negli Stati Uniti, questa particolare connotazione è valsa loro dal 1996 uno speciale regime giuridico, racchiuso nella famosa Section 230 del Communications Decency Act. Una norma che, per evitare che le piattaforme – allora ancora embrionali – diventassero “i censori del web”, ne ha sancita l’esenzione da qualsiasi responsabilità derivante dalla pubblicazione di contenuti illeciti (al di fuori di una serie di ipotesi eccezionali). Norma che, ben presto, ha permesso alle big tech di affermarsi proprio in quel Paese e divenire poi attori globali, e che però, rispetto all’attuale fisionomia del web, è divenuta “stretta”, per almeno due ragioni. Anzitutto, è andata sempre più in crisi l’assenza di un ruolo editoriale su cui si fondava l’esenzione di responsabilità, soprattutto in virtù di un rapporto sempre più interattivo (e non meramente passivo) con i contenuti degli utenti, oggetto per esempio di sfruttamento a fini pubblicitari o di modalità di organizzazione e categorizzazione indicative di un certo controllo. In secondo luogo, la centralità assunta dalle piattaforme digitali per l’esercizio del diritto di parola in un contesto di mercato ormai oligopolistico, se non a tratti monopolistico, ha più volte dato adito all’aspettativa che le attività di moderazione dei contenuti obbedissero a maggiore trasparenza, in virtù di un ruolo para-pubblicistico. Aspettative che in Europa sono state recepite sia dai giudici che dai legislatori, che, per un verso, hanno interpretato con maggior rigore il regime giuridico applicabile, meno favorevole, nell’Unione europea e, per altro, hanno recentemente coniato un nuovo quadro ispirato a requisiti di trasparenza che ben raccontano la centralità delle piattaforme nella società digitale.Tornando oltreoceano, è dunque in risposta all’ampia libertà di moderazione che la Section 230 garantisce e all’accresciuta centralità delle piattaforme che alcuni Stati americani hanno tentato di limitare il loro potere. Nemmeno è risultata estranea a queste iniziative la diffusa percezione da parte delle forze conservatrici di un bias nei confronti loro e delle opinioni politiche più distanti dall’area liberal. Sull’onda emotiva delle vicende che hanno interessato tempo addietro Donald Trump, le leggi adottate da Texas e Florida sono così finite al vaglio della Corte suprema in relazione alle previsioni che, tra le altre, sanzionavano le piattaforme che avessero rimosso account riconducibili a candidati a cariche politiche o loro manifestazioni di pensiero. Un modo per evitare che la libertà di moderazione delle piattaforme potesse degenerare in arbitrio o un limite inaccettabile alla loro libertà di espressione? Questo il grande interrogativo al centro della sentenza della Corte suprema, che ha esaminato i due casi congiuntamente nel tentativo di superare anche le divisioni tra le corti d’appello federali, che avevano raggiunto esiti opposti nell’iter di impugnazione delle due leggi. E, anche volendo considerare il quadro di contenuti disponibili su una piattaforma per effetto delle attività di moderazione compiute dal relativo gestore come un prodotto autonomo tutelato della libertà di espressione di quest’ultimo, quest’esito è compatibile con la visione sottostante alla Section 230, cristallizzata evidentemente sull’assenza di un ruolo editoriale?Se la sentenza si occupa del primo aspetto, essa non scioglie il secondo nodo, non affrontato direttamente, del resto, nell’ambito di una causa incentrata sulla compatibilità con il Primo emendamento delle sole leggi impugnate.Difficile, d’altronde, dare una risposta tranchant al dilemma appena evidenziato. È certamente vero, da una parte, che dall’epoca in cui è stata scritta la Section 230 sono passati quasi venti anni, più di un secolo nel “mondo dei bit”. Ed è altrettanto vero che i soggetti che all’epoca erano immaginati quali destinatari dell’immunità in questione sono lontani parenti degli assai più potenti e sofisticati operatori privati di oggi. D’altra parte, quella normativa non è solo figlia dei suoi tempi, quindi di un internet agli albori assai differente dal contesto digitale che oggi conosciamo, ma è, sotto un profilo più generale, strettamente connessa alle radici liberali del costituzionalismo americano. Non è facile, dunque, pensare a una modifica di questa legislazione senza alterare lo spirito fondativo proprio di quelle radici.

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