di Alberto Orioli
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Il 19 marzo di 22 anni fa Marco Biagi veniva freddato a Bologna con sei colpi dalle nuove Br. Era un professore di Diritto del lavoro, consulente di vari governi e di vari colori. Aveva chiesto la scorta perché era minacciato ed era diventato, suo malgrado, il personaggio bersaglio delle polemiche roventi sulle nuove regole sul lavoro. Non gli fu concessa la scorta. Così, quella sera, come sempre, tornò a casa in bicicletta – l’amata bicicletta – e gli assassini ebbero gioco facile e vigliacco. Di suo, si diceva socialista e cattolico. Nella follia terrorista era colpevole di riformismo, di quel riformismo pratico, alimentato dall’osservazione e dallo studio delle regole degli altri Paesi, così efficace nella predisposizione delle politiche pubbliche perché poco ideologico e molto legato all’evoluzione di una materia – come è il lavoro – in continua mutazione anche se sempre raccontata con gli schemi ossificati dell’ideologia. Che a tutto sono serviti tranne che a crearlo, il lavoro. E, paradosso di cui Biagi avrebbe certo ragionato a lungo, ci troviamo a fronteggiare – dopo 30 anni di scontri e di tragedie sull’articolo 18 e il timore dei licenziamenti di massa – il fenomeno del tutto inatteso delle grandi dimissioni.
Perché il lavoro sta cambiano valore. E senso. Soprattutto nelle nuove generazioni, più preparate e più consapevoli di essere un capitale sociale sempre più scarso, quindi sempre più prezioso. Da remunerare con denaro, certo, ma anche con l’idea di svolgere un compito utile, in luoghi che abbiano attenzione alle persone, in imprese che non abbiano timore di immaginare la tensione alla felicità quasi come un diritto, per lo meno di contesto e legato all’equilibrio tra vita e lavoro.
Marco Biagi oggi avrebbe avuto 74 anni. Magari sarebbe stato rettore proprio di quel campus a Modena che aveva contribuito a realizzare, da grande fan degli esempi americani o inglesi, templi della conoscenza che sa coniugare saperi e curiosità. E che ieri lo ha ricordato con un convegno internazionale che prosegue oggi sul «Dialogo sociale nell’era delle grandi transizioni» organizzato proprio dalla Fondazione che porta il suo nome ed è presieduta da Marina Orlandi Biagi. O magari sarebbe stato ministro se avesse voluto continuare, vestendo i panni del realizzatore politico e non solo dell’elaboratore scientifico o del consulente, la sua strada di riformista. Certo sarebbe stato illuminante continuare a discutere con lui l’inadeguatezza della divisione giuslavoristica tra subordinazione e autonomia: per superare il suo grezzo dualismo stava già pensando a un nuovo Statuto dei lavori. Che torna oggi con la discussione sui gig workers, a cominciare dai rider. Peraltro aveva intuito la fragilità dei vecchi modelli giuridici già quando il mito del delivery non esisteva e tantomeno esisteva il boom dell’e-commerce. Chissà quale sarebbe stata la sua interpretazione dei lavori governati dagli algoritmi, delle nuove modalità di impiego scaturite con la pandemia e con l’Italia dello smart working, delle tematiche legate al gender gap o alla sicurezza. È sua la legge 626 del ’94 che per prima ha cercato di affrontare il tema della sicurezza sul lavoro con la prevenzione e la formazione. Un inizio, l’obiettivo non è ancora stato raggiunto.
Chissà quanto si sarebbe speso a elaborare progetti per impiegare al meglio i fondi del Pnrr, lui europeista convinto e già 20 anni fa attivo a Bruxelles come rappresentante per il governo italiano.
Oggi, a 22 anni di distanza, avrebbe realizzato quanto fosse stato lungimirante il Patto per Milano per includere nel mercato del lavoro le categorie più deboli legandone i percorsi professionali a step formativi e a strumenti di welfare anche locale. L’aveva propiziato nel 2002 e ancora adesso a Palazzo Marino ne vanno fieri e lo considerano un caposaldo delle politiche attive della città (che naturalmente si sono estese).
Immaginare che il tema del lavoro possa portare all’omicidio resta follia. È fuori dalla storia, anche se ha lasciato una scia di morti che al Paese hanno fatto comunque in tempo a dare molto: Marco Biagi, Massimo D’Antona e Ezio Tarantelli. Gli anniversari, anche i più tragici, servono comunque a fare memoria e a guardare il cammino percorso. Chi ha sparato resta con il suo nulla. Chi è stato vittima ha cambiato le cose e resta nelle memoria e nei cuori di tanti che magari non lo conoscevano, ma lo sentono fratello.
Alberto Orioli
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