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Dal Washington Post al Los Angeles Times: giornali nella bufera per la neutralità su Harris-Trump

di Marco Valsania

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Dal Washington Post al Los Angeles Times: giornali nella bufera per la neutralità su Harris-Trump

Dal Washington Post al Los Angeles Times: giornali nella bufera per la neutralità su Harris-Trump

Sui proprietari di numerose testate, Jeff Bezos in testa, l’ombra di “obbedienza anticipata” per evitare vendette del leader repubblicano. Dimissioni e retroscena inquietanti

28 ottobre 2024
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6' di lettura

Prima il Los Angeles Times. Poi il Washington Post. Nello sprint finale verso il voto presidenziale per la Casa Bianca tra i grandi giornali americani, o meglio i loro proprietari, è scattata invece una corsa a ritroso. Una fuga verso l’agnosticismo alle urne che ha destato un crescendo di allarme, per il rischio di intimidazione, o interessato disimpegno, davanti allo spettro di un nuovo possibile successo di uno dei due candidati. Di quel Donald Trump che ha apostrofato i media non allineati con lui, oggi come ieri, “nemici del popolo”. Che ha sbandierando il ricorso a esercito e procuratori federali contro proteste sociali e avversari o critici identificati alla stregua “nemici interni”, di quinte colonne più pericolose di nazioni avversarie. Che ai comizi di regola invoca azioni quali togliere la licenza Tv alla rete Cbs, colpevole di non accogliere le sue richieste.

La “neutralità” del Washington Post

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L’ultimo accusato di genuflettersi davanti alle ire di Trump è stato anche il più influente: il blasonato quotidiano che portò alla luce lo scandalo Watergate e scrisse la parola fine Presidente duro quale Richard Nixon. Ha annunciato la fine d’una tradizione ultratrentennale, che risale al 1976, di “endorsement” di candidati presidenziali. E lo ha fatto in extremis, a pochi giorni dal voto, dopo che l’appoggio della redazione degli opinionisti aveva già redatto l’editoriale di appoggio…a Kamala Harris. Circostanze che hanno reso difficile ai giornalisti della stessa testata, oltre che ad analisti e osservatori, dar credito a ragioni più nobili del desiderio di tregue o patti inquietanti tra ricchi e potenti: il Post e il Los Angeles Times, che ha preso una simile decisione, sono oggi in mano a miliardari con ampi interessi al cospetto del governo. La scelta di astensione ha scatenato una serie di dimissioni dalle pagine delle opinioni e degli editoriali, sia al Los Angeles Times che al Washington Post, continuate nel fine settimana. Al Post 19 opinionisti hanno firmato una lettera aperta di denuncia di ciò che hanno definito come “una terribile decisione”.

Né la neutralità è fatta solo di casi eccellenti e isolati, aggravando il segnale inviato. Prima ancora, in agosto, il Minnesota Star Tribune aveva seguito la medesima strada, anche lui sotto l’egida d’un magnate della comunicazione grafica, Glen Taylor, nonostante nei suoi ranghi dirigenziali abbia un ex collaboratore del candidato democratico alla vicepresidenza Tim Walz. In gioco, con il susseguirsi delle retromarce, è entrato il discusso concetto, citato dalla rivista specializzata Columbia Journalism Review, di “anticipatory obedience”, vale a dire obbedienza anticipata, che precede ogni risultato delle urne, a dimostrazione di ossequio per mettersi al riparo da vendette.

L’avanzata dei social media

Va detto che la stagione d’oro degli appoggi dei media a leader politici in gara è in generale da tempo al tramonto negli Stati Uniti, di pari passo con la loro minor influenza e ridotte schiere di lettori, e con l’avanzata piuttosto dei social media quale grancassa sregolata ed efficace di opinioni e promozioni politiche. Una realtà che ha spinto testate piccole e grandi a cercare di non irritare ulteriormente alcuna parte dei restanti abbonati, tanto più che le pagine delle opinioni sono considerate tra le meno lette (un’analisi di Gennett). E tanto più quando proprietari di giornali sono spesso e volentieri diventati finanzieri o finanziarie, non più pure dinastie editoriali. In anni recenti il gruppo di testate che fa capo al fondo hedge Alden Global Capital, dal Chicago Tribune al Boston Herald, era stato tra i pionieri delle diserzioni politiche, intensificando il trend. E già nel 2020 solo 54 delle maggiori cento testate Usa decise un “endorsement”, contro 92 nel 2008, un declino avvenuto mentre sullo sfondo sono scomparsi del tutto 2.500 giornali nel Paese. Simili cifre avevano già spinto Penelope Muse Abernathy della Northwestern University a parlare di una “perdita per la democrazia di base”.

Ma adesso la repentina neutralità dichiarata da marchi quali il Post sul fronte di una battaglia elettorale ormai agli sgoccioli e unanimemente considerata tra le più consequenziali di sempre va ben al di là di queste storica erosione, che aveva visto lo stesso New York Times indicare negli ultimi mesi che in futuro si sarebbe astenuto da esprimersi su corse locali ma non presidenziali. Può apparire un salto di qualità che dà credito alle polemiche: un sondaggio del quotidiano newyorchese, casualmente uscito negli stessi giorni, ha mostrato quasi metà degli americani delusi da una democrazia che dicono non li rappresenta e il 76% definire la democrazia stessa in pericolo.

Un ritorno alle origini?

Ufficialmente l’editore di Post, William Lewis, ha descritto la scelta, ascrivendola a se stesso, alla stregua di un ritorno alle origini, quando il giornale della capitale evitava raccomandazioni. Peccato che siano stati i suoi stessi giornalisti, segno del malessere che mossa ha creato all’interno, abbiano strappato il velo svelando il retroscena assai meno trasparente: un appoggio per Kamala Harris, la rivale di Trump, era ormai pronto da parte delle sezioni degli opinionisti, tradizionalmente indipendente e separata dalle news nella stampa Usa. E aspettava solo in via libera definitivo dai top executive. Che non è mai arrivato: la decisione improvvisa di cancellarlo è stata presa direttamente dal proprietario, l’imprenditore miliardario Jeff Bezos.

Una cosa è certa: in caso di una nuova amministrazione Trump, Bezos avrebbe molti interessi economici e contratti federali multimiliardari sotto tiro, da Amazon nel commercio, nel cloud e in IA alla Blue Origin nello spazio. E ha già avuto scontri e perso business durante la prima amministrazione Trump, considerata dai più un assaggio di quanto potrebbe fare in futuro se vittorioso con minori controlli e influenze moderatrici in una riedizione. I suoi rancori e desideri di rivalsa sono comprovati e Bezos, nonostante i suoi successi, non ha mai conquistato l’influenza politica a Washington che sembrava dovuta. Oggi è semmai anche nel mirino dell’antitrust.

Il Post, oltretutto, dopo un rilancio grazie all’arrivo di Bezos che lo ha rilevato nel 2013, ha conosciuto nuove difficoltà e tensioni, reduce da tagli e discussi cambi al vertice. Il suo editore, Lewis, ha fatto carriera nel giornalismo di Rupert Murdoch e si è distinto, di recente, per la cacciata della direttrice Sally Buzbee che non voleva mettere a tacere novità sul ruolo giocato dallo stesso Lewis nello scandalo delle intercettazioni che anni fa scosse l’impero Murdoch in Gran Bretagna.

Prima del Post, la scelta del Los Angeles Times

Anche il meno influente Los Angeles Times è controllato da un miliardario con vasti interessi finanziari e farmaceutici (e quindi prodotti soggetti ad approvazioni federali): Patrick Soon-Shiong. Ha una tradizione non dissimile dal Post di “endorsement”: aveva evitato appoggi nel 1976 e 2004 ma dal 2008 li aveva ripresi di regola, a favore di candidati democratici alla Casa Bianca. Entrambi i giornali si sono inoltre distinti per ripetute inchieste e denunce sui rischi posti ieri e oggi alla democrazia da Trump, dalle sue politiche e dal suo ricorso alla disinformazione, compreso il suo ruolo nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Ancora nelle ultime ore il Post ha riportato documenti e testimoni alla mano come uno dei grandi finanziatori e alleati di Trump, Elon Musk, abbia cominciato la sua carriera negli Usa da immigrato illegale, senza un corretto permesso di lavoro. Ora Musk è tra i grandi alfieri anti-clandestini.

I leader delle testate hanno spiegato la loro decisione cercando di tener conto delle polemiche. “Sappiamo che questo verrà letto in molti modi, compreso un tacito appoggio per un candidato, o una condanna per un altro, o un’abdicazione di responsabilità. Ma non la vediamo così”, ha fatto sapere Lewis, publisher del Post. Piuttosto, ha aggiunto, la consideriamo come una “dichiarazione di rispetto per l’abilità dei nostri lettori di decidere da soli”.

La proprietà del Los Angeles Times è parsa offrire versioni più confuse, a volte trincerandosi dietro la volontà di offrire analisi obiettive dei piani dei due candidati, altre suggerendo che sarebbe stata la politica troppo pro-israeliana di Harris a impedire il sostegno, non un desiderio di pacificare Trump. Soon-Shiong ha citato “la paura che una scelta aggravasse solo le divisioni” nel Paese. Anche nel caso del quodidiano californiano, però, un appoggio a Harris era stato preparato dalla redazione delle opinioni solo per essere bloccato all’ultimo momento.

Le proteste

Il sindacato dei dipendenti delle due testate non ha accettato le versioni vicine alla proprietà. Ha denunciato duramente il colpo di spugna improvviso ai danni di Harris, definito una interferenza nel lavoro di giornalisti e opinionisti che danneggia la credibilità e la fiducia medie invece di rafforzarla. Le parole più dure sono però forse arrivate da un ex direttore del Post, Martin Baron, sotto la cui leadership il quotidiano aveva brillato durante la prima presidenza Trump. Baron, in precedenza, aveva guidato il Boston Globe durante la premiata inchiesta-shock sugli abusi sessuali nella Chiesa Cattolica. “E’ codardia, un momento di oscurità che lascia la democrazia come vittima”, ha detto parafrasando il motto ufficiale del Post (La democrazia muore nell’oscurità). Ancora: “Donald Trump celebrerà questo come un invito a intimidire ulteriormente il proprietario del Post, Jeff Bezos (o altri proprietari di media). E la storia lo considererà un inquietante capitolo di debolezza per una istituzione nota per il suo coraggio”.

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