di Lara Ricci
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«Fatevi ispirare da Igiaba Scego, con la sua letteratura postcoloniale, da Vincenzo Latronico, col suo romanzo sui giovani italiani a Berlino, o da Claudia Durastanti con la sua autofiction tra Roma e Brooklyn: tutti loro rappresentano un’Italia diversa, moderna, giovane»: questo e solo questo ha detto, nell’introdurre l’Italia Paese ospite della Franfurter Buchmesse, il suo direttore Juergen Boos, alla stampa, inaugurando l’edizione 2024.
In precedenza aveva citato Roberto Saviano come primo nome degli autori internazionali presenti, forse una risposta alla polemica suscitata da quest’ultimo quando non è stato inserito nella delegazione italiana, polemica che ha portato a un programma di scrittori italiani parallelo a quello selezionato dal commissario straordinario per la Buchmesse Mauro Mazza e ospitato nello stand del Pen international di Berlino.
Nel padiglione italiano, tuttavia, i “giovani” autori italiani hanno avuto le loro belle difficoltà a mostrare questa Italia «diversa, moderna, giovane» e a portare avanti un’immagine della nostra letteratura che non fosse solo “etnica”: «Spero che l’Italia venga conosciuta nella sua pluralità e al di là dello stereotipo» diceva Scego, scrittrice afrodiscendente, durante un incontro al caffé letterario, ma la sua voce si sentiva appena, sovrastata com’era da quella del cantante da pianobar che, nella buia sala a fianco, adornata da un finto cielo stellato e da un porticato di bianche colonne, intonava O sole mio, o qualcosa del genere.
Cantava ancora canzonette a squarciagola quando Alice Urciuolo, autrice che nei suoi romanzi descrive le ragazze italiane alle prese con una cultura patriarcale, si è trovata a dover rispondere alla domanda: «Ma come mai voi autori italiani scrivete sempre di mamma e papà»?
Conviene di più tradurre un autore straniero?
Diverse presentazioni degli scrittori del programma ufficiale non hanno avuto quasi pubblico, specialmente quel pubblico di agenti ed editori che è la forza di una fiera business to business. Una grande occasione mancata, mormoravano alcuni editori, sostenendo che l’Italia si fosse mossa troppo tardi per cercare di coinvolgere i professionisti che avrebbero potuto condurre a una traduzione degli autori italiani. Aggiungevano anche che a loro conviene di più tradurre un autore straniero che usufruisce del sostegno alla traduzione del suo Paese, che portare avanti un italiano, sul quale oltretutto difficilmente guadagneranno vendendo i diritti all’estero, poiché gli aiuti alla traduzione italiani sono pochi e complicati da avere.
Questi, dal 2020, ammontano a circa un milione l’anno. «Come la maggior parte delle editorie evolute al mondo, anche noi abbiamo un sistema di aiuti alla lettura - spiega il direttore dell’Associazione italiana editori, Fabio Del Giudice -. Risale agli anni Novanta e fa capo al ministero degli Esteri. Eroga circa 600mila euro l’anno agli editori stranieri che fanno domanda perché stanno per acquistare i diritti di un autore italiano. Se la Farnesina valuta che la richiesta è ammissibile eroga una percentuale che varia tra il 30 e il 75% di contributo rispetto al costo di traduzione (altri Paesi come la Francia o la Spagna non erogano una percentuale dei costi, ma l’integralità, se non supera una certa cifra, altro fattore che potrebbe rendere la nostra letteratura meno competitiva, ndr). Il bando è annuale, dunque se si fa domanda quando se ne è appena chiuso uno ci vuole fino ad un anno per avere i soldi (i francesi invece lavorano a sportello, fino a che i fondi non finiscono). Ma il sistema oggi è diventato molto più efficiente rispetto al passato, quando soffriva di lentezze burocratiche e altri problemi».
«Nel 2020, un anno complicato - prosegue De Giudice - il ministero dei Beni culturali, e in particolare il Centro per il libro e la lettura (Cepel), ha deciso di mettere a disposizione dei soldi per finalità analoghe, circa 400mila euro l’anno. Solo che il Cepel non può pagare soggetti esteri, dunque si è pensato un altro sistema, ovvero che - sempre sulla base di un contratto di cessione dei diritti - fosse l’editore italiano a fare domanda, in nome e per conto dell’editore straniero. Quando l’editore italiano riceve conferma che il finanziamento sarà erogato anticipa i soldi all’editore straniero e poi chiede al Cepel di farsi rimborsare quei soldi. Questo ha generato qualche problema perché non tutti gli editori, specialmente i più piccoli, sono in grado di anticipare i soldi, ma è l’unico modo che è stato trovato per potenziare il sistema di contributi e a mio parere resta un sistema efficace».
Gli aiuti alla traduzione negli altri Paesi
Un milione di euro l’anno non sono però molti di fronte ad esempio alla Svizzera che, pur essendo un piccolo Paese con solo 8,7 milioni di abitanti, investe la stessa cifra; o alla minuscola Islanda, con i suoi 378mila abitanti, che mette a disposizione 200mila euro l’anno; alla Francia, che solo tra gli aiuti del ministero degli Esteri e quelli del Centre national du livre, nel 2023 ha stanziato un milione e 200mila euro, oltre a organizzare molte ed efficaci - a detta degli editori - attività di promozione, e ad essere avvantaggiata dal fatto che il francese è una lingua molto conosciuta nel mondo. Un milione di euro l’anno sono meno di quelli messi a disposizione dalla Spagna e molti meno di quelli che investe la Corea del Sud: addirittura 19 milioni di euro l’anno (Paese che due settimane fa ha vinto il Nobel per la Letteratura).
Non sono poi molti se si pensa che per la costruzione del padiglione e per la missione italiana a Francoforte sono stati investiti 9 milioni di euro. E non paiono molti se si considera che l’Italiano nel mondo lo parlano ben pochi, anche fra gli editor. «Il motivo per cui nel 2005 abbiamo fondato la nostra casa editrice Europa Edition negli Stati Uniti è che volevamo tradurre i libri di Elena Ferrante ma non trovavamo nessuno nelle case editrici americane che leggesse l’italiano», ha affermato Sandro Ferri, editore di e/o, durante una conferenza dal titolo «L’editoria italiana va all’estero: non solo diritti», suggerendo di creare delle fellowship per gli editor stranieri che vogliono imparare l’italiano. Questo, secondo lui, potrebbe favorire l’esportazione della nostra letteratura.
Il successo internazionale di Elena Ferrante avrebbe oltretutto trascinato quello di Alba de Céspedes, ormai tradotta in 23 lingue, ha affermato Fiammetta Giorgi, di Mondadori Libri, per la vicinanza di temi e atmosfere evocate.
Sandra Ozzola, cofondatrice di e/o e moglie di Ferri, ha confermato che loro, nella loro veste di editori americani, a causa degli scarsi incentivi hanno più convenienza a tradurre autori stranieri che italiani, aggiungendo però che bisogna tradurre libri di qualità se non si vuole far fare una cattiva figura alla nostra letteratura.
La qualità dei libri tradotti
A differenza di Paesi come la Francia, la Svizzera, la Germania o la Spagna i finanziamenti alla traduzione in Italia non vengono erogati in base alla qualità del libro. «Oggi si valuta la capacità di distribuzione della casa editrice straniera e la serietà del traduttore scelto, ma non la qualità dell’opera tradotta - spiega Del Giudice -. Questo perché qualunque analisi qualitativa su un’opera fatta da un ente pubblico è sindacabile. Abbiamo chiesto al Governo che venisse evitata qualunque tipo di analisi qualitativa, anche perché in passato abbiamo visto che questa discrezionalità poteva portare a delle distorsioni. Una volta, per esempio, ho sentito dire “questo libro non dà una buona immagine dell’Italia all’estero”. E l’osservazione non riguardava il fatto che fosse più o meno di qualità, ma come parlava dell’Italia. Affidare a una commissione pubblica la valutazione qualitativa delle opere cui dare un sostegno all’esportazione è una cosa che si fa in Paesi dove la democrazia è molto limitata».
Viene però anche da chiedersi che democrazia è quella che pensa di non essere capace di trovare una giuria di esperti che non sia influenzabile dal potere politico al governo.
Le difficoltà degli editori indipendenti
L’assenza di una rete di librerie indipendenti che sostiene gli editori indipendenti e il problema della concentrazione di chi si occupa della distribuzione dei libri è un fattore che penalizza i piccoli editori, ha osservato durante la conferenza «La piccola e media editoria in Italia e in Europa» Annamaria Malato, fondatrice di Più libri più liberi, fiera dell’editoria indipendente. Alla conferenza partecipava anche Nicolas Filicic di Les belles Lettres, che ha spiegato come 25 anni fa abbiano fondato una filiale che si occupa di distribuire e promuovere i piccoli editori e che oggi raccoglie circa 150 editori.
Se in Italia esistono 8700 editori che producono almeno un titolo l’anno, solo 750 hanno vendite nel mercato trade superiori ai 100mila euro l’anno - ha detto Lorenzo Armando di Lexis -, e tra questi solo 650 non fanno parte di grandi gruppi. Rappresentano circa un quarto del mercato. Tra loro si contano 36 aziende con ricavi superiori ai 5 milioni. «I piccoli editori fanno fatica a crescere perché non hanno canali nazionali di distribuzione indipendenti - ha aggiunto Armando -. Un unico distributore nazionale concentra l’80% del giro d’affari, e i piccoli non riescono a negoziare condizioni a loro convenienti. La loro quota di mercato non rispecchia la marginalità. Il fatto che durante la pandemia, quando le vendite in libreria erano ai minimi, la quota di venduto dei piccoli editori sia stata maggiore e poi sia invece tornata a scendere mostra come questi facciano fatica a vendere i loro libri in libreria».
Lara Ricci
vicecaposervizio curatrice delle pagine di letteratura e poesia
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