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Come potenziare l’italiano, in genere

di Vera Gheno e Gigliola Sulis

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Come potenziare l’italiano, in genere

Come potenziare l’italiano, in genere

Oltre la lingua. Il dibattito sull’uso dei femminili professionali e sul superamento della visione binaria è la spia di un cambiamento che riflette i mutamenti sociali. Perché va studiato e, soprattutto, preso sul serio

1 luglio 2024
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4' di lettura

Sono passati quasi novant’anni da quando Antonio Gramsci, già linguista e allievo di Matteo Bartoli a Torino, annotava nei Quaderni del carcere che «ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». Stando alla vivacità dei dibattiti attuali, sembra che oggi il genere sia una delle principali articolazioni della “quistione” della lingua in Italia: di cosa si parla, dunque, quando si discute di lingua e genere, e qual è la relazione con una possibile riorganizzazione dei rapporti di potere?

Due sono al momento le aree calde del dibattito: l’uso dei femminili professionali e la sperimentazione di forme che puntano a superare la visione binaria del genere. Questi cambiamenti e le reazioni che provocano si legano alla dignità e visibilità (anche) linguistica di gruppi che, non appartenendo al genere egemonico, sono stati tradizionalmente marginalizzati, e rispondono quindi a una richiesta di diritti, dentro e fuori dalla lingua.

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L’emersione del femminile come desinenza (e categoria) a sé stante, non più inclusa automaticamente nel maschile sovraesteso, ha un forte valore simbolico nel cammino dei diritti delle donne. Hanno mostrato in questo la via le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini (studiosa e femminista, co-fondatrice e prima presidente del Movimento di Liberazione della Donna), redatte tra il 1986 e il 1987 su sollecitazione della Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna promossa dal Consiglio dei Ministri.

È qui che, tra vari suggerimenti per rendere meno sessisti gli usi della lingua italiana (che di per sé, si badi bene, non sarebbe sessista: lo è l’uso che se ne fa), si presentavano elenchi di femminili regolari anche se poco usati, come ingegnera o architetta, avvocata, magistrata, sindaca, e se ne raccomandava l’uso. L’ironia e lo scherno che accompagnarono allora queste proposte non ne hanno impedito la diffusione, pur se in tempi lunghi e con percorsi non lineari, in concomitanza all’ingresso delle donne in settori professionali che per lungo tempo erano stati loro preclusi – un fenomeno sociale e linguistico peraltro rilevato da Bruno Migliorini sin dagli anni 30 del Novecento, con grande anticipo rispetto agli studi di settore. Permane, comunque, una certa ostilità diffusa, residuo di una resistenza al cambiamento che pure sta perdendo ogni ragione d’essere.

I primi passi nell’ambito della messa in discussione del binarismo sono stati mossi in ambienti militanti, come nelle comunità LGBTQIA+, all’interno delle quali si cerca ormai da tempo di evitare il maschile per indicare gruppi misti o per riferirsi a persone non binarie, sperimentando con una varietà di desinenze alternative: la vocale -u, le consonanti -x, -y, -z, l’apostrofo, il trattino basso, simboli quali la chiocciola e lo schwa (ə). Regolarmente presentati come bislacche manovre per stravolgere la lingua italiana “a tavolino” o come imposizioni dall’alto da parte di piccoli gruppi, questi tentativi ci parlano in realtà delle ricerche di nuovi modi di vivere la lingua, sia per le donne sia per quelli che la filosofa Chiara Bottici, ampliando la definizione storica di Simone de Beauvoir, chiama i “secondi sessi”, per indicare tutte le persone che non si identificano come maschi cisgender (soggetti nei quali sesso biologico assegnato alla nascita e identità di genere coincidono) ed eterosessuali. Il discorso interessa soprattutto le generazioni più giovani, che dimostrano maggiore familiarità con il concetto di fluidità.

La domanda se questi usi non binari avranno seguito, e quale tra i vari proposti potrà diventare predominante, non ha ovviamente una risposta immediata, e forse non è nemmeno l’aspetto su cui focalizzarsi.

Di certo non si tratta di un fenomeno esclusivamente italiano. In inglese, l’uso di they come pronome singolare di terza persona non marcato, in aggiunta a he/she, è ormai comune in tutti i settori in cui si vogliano evitare pregiudizi impliciti e possibili discriminazioni, dalle selezioni per posti di lavoro ai bandi di finanziamento di istituzioni internazionali, ma non mancano forme più sperimentali con ze/zir. In svedese, la proposta di hen come pronome di terza persona non binario data agli anni 60, e viene accettata dall’Accademia della Lingua nel 2015; la stessa forma è riconosciuta in norvegese dal 2022. In francese, iel/iels compaiono nella versione digitale del Petit Robert dal 2021. Nei paesi ispanofoni e lusofoni troviamo la desidenza in -e (todes), ma anche la chiocciola (muchach@s).

Sono tentativi che, pur rimanendo a livello linguistico, toccano una delle più radicate convinzioni della nostra società, quella che vede gli esseri umani divisi inequivocabilmente in maschi e femmine; dunque, non deve stupire se la resistenza è tanta, e se nella discussione prevalgono reazioni emotive di chiusura o argomentazioni che distorcono la realtà. Una delle più ricorrenti è quella che individua nelle proposte di linguaggio ampio un’imposizione e una limitazione delle opzioni a disposizione di chi parla, e non un ampliamento delle possibilità espressive e una forma di democrazia linguistica. Sarebbe utile, di fronte ai cambiamenti, tornare alla lezione di un grande maestro quale Tullio De Mauro, che ci invitava a passare dal chiederci «come si deve dire una cosa» a «come si può dire una cosa». Una piccola, ma essenziale, rivoluzione del pensiero.

Si è tenuta a Royal Holloway University of London, dal 19 al 21 giugno, la Biennial Conference della Society for Italian Studies in the UK and Ireland (SIS). Per concessione delle autrici e della SIS, riproduciamo un estratto dell’intervento di apertura di Vera Gheno e Gigliola Sulis.

Per approfondire i temi qui discussi si possono vedere: Vera Gheno, Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole (effequ, 2021); Vera Gheno, Grammamanti. Immaginare futuri con le parole (Einaudi, 2024); Gláucia V. Silva, Cristiane Soares (a cura di), Inclusiveness Beyond the (Non)binary in Romance Languages. Research and Classroom Implementation, Routledge, 2024; Gigliola Sulis e Vera Gheno, “The Debate on Language and Gender in Italy, from the Visibility of Women to Inclusive Language (1980s–2020s)”, su «The Italianist», 2022.

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