medio oriente

Incalzato dalle proteste, si dimette il primo ministro libanese Hariri

Il 49enne sunnita Hariri getta la spugna dopo tredici giorni di proteste che hanno riempito strade e piazze. Nemmeno l’annuncio fatto il 21 ottobre di un piano di riforme economiche con la nuova legge di bilancio è bastato a sedare le manifestazioni

di Roberto Bongiorni

Libano, il primo ministro Saad Hariri si è dimesso

4' di lettura

Hanno riempito piazze e strade chiedendo le sue dimissioni. Tredici giorni dopo, le hanno ottenute. Ed ora, dopo esser stati brutalmente aggrediti da bande legate agli Hezbollah, i manifestanti festeggiano. La prima vittima illustre della primavera libanese è il primo ministro del Governo, il 49enne sunnita Saad Hariri.

Alla fine il figlio del businessman Rafiq Hariri, l’ex premier libanese ucciso in un attentato sul lungomare di Beirut il 14 febbraio del 2005, ha rotto gli indugi: «Per 13 giorni il popolo del Libano ha atteso una decisione per un soluzione politica che fermi la crisi. Io ho provato, durante questo periodo, a trovare un via per venire incontro alla voce della gente», ha esordito Hariri nel suo discorso televisivo alla nazione.

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La via per placare il malcontento popolare era l’annuncio, fatto il 21 ottobre, di un piano di riforme economiche con la nuova legge di bilancio. Che però non è bastato a sedare le manifestazioni anti-governative. Non ha nemmeno funzionato l'annuncio, fatto qualche giorno più tardi dal presidente del Libano, Michel Aoun, di un imminente rimpasto di Governo. Non avvenuto a causa delle note divisioni interne all’Esecutivo.

Incalzato da una protesta imponente, eppure esemplare per le sue modalità pacifiche, Hariri ha preso una decisione che in pochi si aspettavano, almeno in tempi così brevi. «Abbiamo raggiunto un punto morto, c'è bisogno di uno shock per superare questa crisi».

Dimissioni dunque. Una decisione non ha fatto piacere ad Hezbollah, il movimento sciita , alleato dell’Iran, che nelle ultime elezioni del maggio 2018 si è imposto come la forza politica più rilevante. E che non sembra esser stata particolarmente gradita nemmeno da Parigi.

Il piccolo ma strategico Libano rischia ora di sprofondare nel caos Banche, scuole e molti esercizi commerciali sono chiusi da due settimane. Impossibile prevedere che cosa accadrà nei prossimi giorni.

I mali del Paese dei Cedri sono ormai cronici. I servizi pubblici sono allo sfascio, la corruzione è quasi pervasiva, il debito pubblico si è gonfiato al 150% del Pil. Neanche le ricette del mago della finanza creativa, il governatore della Banca centrale, Riad Salameh, sembrano ora in grado far galleggiare un Paese su cui da anni grava il fardello dei rifugiati siriani, ormai il 25% della popolazione (il Libano è divenuto così il primo Paese al mondo per numero di rifugiati per abitante).

La goccia che aveva fatto traboccare il vaso è stato l’ultimo round di misure fiscali volute dal premier per provare a contenere la crisi: ovvero l’introduzione di imposte sul tabacco, sulla benzina e perfino sulla messaggistica e sulle telefonate via Whatsapp.

Sull’onda dell’euforia, accanto alle rivendicazioni economiche, da alcuni giorni la piazza invoca una rivoluzione politica difficile da otternere: le dimissioni di tutta la classe che governa il Paese dai tempi della Guerra civile (1975-1990).

Era dal febbraio 2005, dopo l’attentato contro Rafiq Hariri, che non si vedevano manifestazioni così imponenti. Allora il Libano era spaccato in due: pro siriani contro filo occidentali. Sunniti contro sciiti. Questa volta la storia è diversa. Anche se l’assetto istituzionale è sempre quello uscito dagli accordi di Taif, che posero fine alla guerra civile.

La Costituzione prevede infatti che il presidente debba essere un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita, e il capo del Parlamento un musulmano sciita. Contrariamente a quanto accaduto negli ultimi 15 anni, finora la protesta è stata multiconfessionale e trasversale (vi hanno partecipato anche i drusi). Vedere la comunità sciita scendere massicciamente in piazza, spesso invocando slogan contro i propri storici leader, come Nabil Berri, capo del movimento Amal, e perfino contro Hassan Nasrallah, guida indiscussa del potente movimento filo-iraniano Hezbollah, è un fatto storico.

La risposta di Hezbollah è stata dura. Poco ore prima che Hariri annunciasse le sue dimissioni, le milizie del Partito di Dio e i sostenitori del movimento Amal hanno distrutto l'accampamento di tende messe in piedi dai manifestanti a Riad Solh Square e a piazza dei Martiri, nel centro di Beirut. Gli stessi gruppi hanno attaccato con spranghe e percosse gli attivisti.

Il presidente del Libano ora dovrà consultarsi con il Parlamento per verificare la possibilità di formare un nuovo Governo. Ma il Parlamento è composto proprio dalle stesse fazioni che fanno parte della classe al potere.

La situazione è davvero complessa. Lo ha ben compreso la Francia, il Paese occidentale che mantiene ancora legami storici con il Libano. Il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, ha chiesto ai responsabili libanesi di garantire la stabilità delle istituzioni e l’unità del Paese. Le dimissioni «rendono la crisi ancora più grave in un certo senso», ha dichiarato, aggiungendo: «La Francia ha due convinzioni: invitare i responsabili libanesi a fare di tutto per garantire la stabilità delle istituzioni e l'unità del Libano; (...) ascoltare la voce e le rivendicazioni della popolazione». Per un Paese complesso come il Libano è più facile a dirsi che a farsi.

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